Di tanto in tanto, in occasione di qualche evento catastrofico come un terremoto o una crisi economica si ritorna a discutere di cosa significhi fare una previsione e nel caso a cosa serva una scienza che non è in grado di fare previsioni. Il significato di previsione ha subito un’importante evoluzione nelle scienze dure: mentre, nell’Ottocento, Pierre Simon Laplace immaginava che una conoscenza infinitamente precisa, ad esempio, delle posizioni e delle velocità dei pianeti, sarebbe stata sufficiente per una previsione delle loro posizioni e velocità in qualsiasi tempo futuro, questa certezza venne a cadere  quando si comprese, con Henri Poincaré, che “piccole differenze nelle condizioni iniziali ne producano di grandissime nei fenomeni finali. Un piccolo errore nelle prime produce un errore enorme nei secondi. La previsione diventa impossibile e si ha un fenomeno fortuito”. Questo è il famoso effetto farfalla: una farfalla che sbatte le ali in Brasile può causare un ciclone in Florida, nel senso che un a piccola perturbazione può causare, in determinate circostanze, grandi cambiamenti nell’evoluzione futura di un sistema.

Questa caratteristica di caoticità è presente anche nel semplice sistema composto dalla Terra, dal Sole e dalla Luna di cui si conosce la legge che ne governa il moto (la gravità di Newton) e si possono misurare con buona precisione alcuni parametri fondamentali, come la massa dei corpi, le velocità, le posizioni, ecc. Per via dell’effetto farfalla, è possibile effettuare previsioni affidabili solo per un certo periodo (circa un milione d’anni) oltre il quale il sistema diventa caotico. Nel caso della meteorologia le previsioni sono affidabili solo per un periodo di circa una settimana (in media). La previsione è tanto più affidabile quanto minore è l’intervallo di tempo considerato: tra un’ora possiamo essere ragionevolmente sicuri della nostra previsione.

Per i terremoti la situazione è invertita: una volta identificata una zona sismica non siamo in grado di quantificare la probabilità della previsione nel breve periodo, piuttosto possiamo essere ragionevolmente sicuri che nel lungo termine si verificherà un terremoto. Questo tipo di conoscenza  è utile per elaborare una mappa del rischio sismico e fare dunque una politica di prevenzione, come ad esempio costruire in modo antisismico. In un recente articolo su Nature il sismologo americano Robert Geller scrive:  “E’ ora di dire al pubblico francamente che i terremoti non possono essere previsti… Tutto il Giappone è a rischio terremoti, e lo stato attuale della scienza sismologica non ci permette di differenziare il livello di rischio in particolari aree geografiche. Noi dovremmo dire al pubblico e al governo di  ‘prepararsi per l’imprevisto’ e fare del nostro meglio per comunicare sia quello che sappiamo e che non sappiamo”.

In economia la situazione è  invece molto più controversa. Come si è visto nel caso dell’ultima crisi, la gran parte degli economisti, e in particolare quelli, i neo-liberisti, che pensano che “il mercato” sia una sorta di sistema dinamico che si auto-regola se non viene “disturbato” da interventi esterni, non ha previsto la crisi. L’argomento portato a difesa di quest’incapacità è stato che non si possono prevedere le crisi finanziarie come non si possono prevedere i terremoti. Ma questo argomento non regge: come i geologi identificano una zona sismica gli economisti dovrebbero capire le condizioni per cui l’occorrenza di un evento traumatico diventano maggiormente probabili; mentre una zona sismica rimane tale per un tempo geologico, un sistema economico può essere più o meno soggetto a crisi per un tempo scala di alcuni anni.

Nessuna persona ragionevole pretende dunque che gli economisti avessero previsto che esattamente nell’agosto 2007 sarebbe avvenuta una grave crisi finanziaria o che a settembre 2008 la crisi sarebbe precipitata in una crisi di fiducia, ecc. Non si tratta, infatti, di individuare il punto preciso nel tempo e nello spazio in cui ha luogo la crisi, ma di individuare il “rischio sismico”, in un lasso ragionevole di tempo, di un evento catastrofico (un crollo in Borsa, lo scoppio di una bolla immobiliare, il fallimento delle banche, la chiusura di grandi fabbriche, la caduta generalizzata della domanda, ecc.) e degli effetti che può  provocare (recessione o caduta del Pil, disoccupazione, ecc.). Come spiega, ad esempio, Roberto Petrini nel suo bel libro “Processo agli economisti” un’analisi qualitativa del “rischio sismico”  è stata sviluppata soprattutto da quella minoranza d’economisti, detti eterodossi, che avevano avvertito che la situazione economica degli Stati Uniti stava diventando suscettibile di eventi catastrofici.

Ci si chiede dunque quale sia l’utilità di una teoria che non è in grado né di fare previsioni quantitative, come la meccanica celeste o la meteorologia, né di costruire una mappa del rischio come la geologia. In un editoriale su Nature Jean-Philippe Bouchaud, fisico e studioso dei mercati finanziari, scrive: “I razzi volano sino alla luna, l’energia viene ottenuta da minuti cambiamenti di massa atomica senza grandi disastri, i satelliti di posizionamento globale aiutano milioni di persone a trovare la loro strada di casa. Ma qual è un successo che sia il fiore all’occhiello dell’economia, oltre alla sua ricorrente incapacità di prevedere e prevenire le crisi, tra cui l’attuale crisi del credito mondiale? … Soprattutto, vi è la necessità decisiva di cambiare la mentalità di coloro che lavorano in economia e nell’ingegneria finanziaria. Essi hanno bisogno di allontanarsi da ciò che Richard Feynman ha definito Cargo Cult Science: una scienza che segue tutti i precetti e le apparenti forme dell’indagine scientifica, mentre manca ancora qualcosa d’essenziale. Un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico nelle scienze economiche e nella matematica finanziaria sono elementi integranti del problema”. In altre parole il problema sta nella forzatura di trattare, nella formalizzazione matematica, una scienza sociale come l’economia come se fosse una scienza dura senza considerare poi che la validità di una teoria nelle scienze dure si ottiene dal confronto con l’esperimento. L’eccessiva formalizzazione rischia di eliminare quegli strumenti concettuali più propri di una scienza sociale, che sono necessari a comprendere, sia pure in maniera parziale e qualitativa, la realtà economica.

Inoltre, se l’elevato “rischio sismico” non è stato compreso da molti economisti di primo piano, quello che lascia maggiormente perplessi è che, una volta che la crisi finanziaria aveva preso il via, c’è stata una corsa da parte d’alcuni a negarne le conseguenze catastrofiche nell’economia reale come fecero, ad esempio, i nostri Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Piuttosto che effetto farfalla, in questo caso si è andati direttamente per farfalle.

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