Nell’anno del peggior disastro ecologico della storia americana i lobbisti Usa hanno saputo incidere come non mai nella politica nazionale mobilitando attivisti e fondi per un ammontare da record. Lo rivela in questi giorni il Center for Responsive Politics (Crp), un ente di ricerca indipendente di Washington che da quasi trent’anni analizza l’operato delle lobby nella politica statunitense. Un attivismo, quello condotto dall’industria del petrolio e del gas naturale, capace di proteggere il settore da qualsiasi progetto di riforma ma anche – e non è una conseguenza da poco – di vanificare gli sforzi tutt’altro che modesti profusi dai gruppi ambientalisti.

Dal gennaio 2009 ad oggi, gli attivisti e i fautori della green economy hanno mobilitato 500 lobbisti sborsando qualcosa come 33 milioni di dollari. Cifre significative, certo, ma non abbastanza consistenti da contrastare efficacemente l’opera dei rivali. Già, perché nello stesso periodo l’apparato industriale gas-petrolio ha ingaggiato 874 operatori e di milioni, tanto per andare sul sicuro, ne ha tirati fuori quasi 250. Uno sforzo da record sul quale la crisi finanziaria non ha inciso minimamente.

Per i lobbisti “fossili”, quest’ultimo annus mirabilis costituisce il punto d’arrivo di una strategia consolidata che da tempo rimpingua le casse dei politici più influenti a colpi di contributi elettorali. Un sistema ampiamente collaudato di cui hanno beneficiato soprattutto i repubblicani. Secondo i dati di Crp, infatti, sono ben nove gli esponenti conservatori nella Top ten dei contributi “oil-gas” dell’ultimo ventennio. L’ex candidato presidenziale John McCain svetta nella graduatoria con oltre 2,7 milioni di dollari incassati dal 1989 ad oggi. La senatrice della Lousiania Mary Landrieu, ottava in classifica generale e prima tra gli esponenti democratici, ha dovuto accontentarsi, si fa per dire, di 828 mila biglietti verdi.

In un sistema che accetta e incoraggia le attività di lobbying purché condotte in condizioni di trasparenza, gli ambientalisti non sono certo stati a guardare (il democratico Mark Udall, principale beneficiario del fronte green, ha intascato mezzo milione di dollari negli ultimi due decenni), ma il confronto con la mobilitazione nemica si è mantenuto impietoso. E i risultati sono venuti di conseguenza. Quando Obama e i suoi hanno messo in agenda la celebre proposta di legge sui limiti alle emissioni, gli ambientalisti hanno sborsato la cifra record di 22,4 milioni, cinque in meno di quelli messi in campo sul fronte opposto dalla sola ExxonMobil. L’armata degli oppositori, nel frattempo, ha fatto piovere su Washington un maxi finanziamento da 175 milioni tanto per chiarire, una volta per tutte, chi comandasse davvero. E così l’emendamento ambientalista promosso dalla fidata coppia John Kerry/Joe Lieberman si è incagliato in Senato.

Non tutti gli esponenti politici, è bene ricordarlo, si sono adeguati al trend e negli ultimi tempi non sono mancate le crisi di coscienza. Almeno dodici parlamentari, ha sottolineato il Crp, rifiutano tuttora qualsiasi contributo dalla lobby gas/petrolio e qualcuno, come il deputato texano Charles González e la candidata repubblicana al Senato Carly Fiorina, ha promesso di rifiutare in futuro qualsiasi contributo dalla famigerata Bp. Ma nella sostanza la macchina da guerra dei lobbisti può continuare ad operare con efficacia proteggendo i propri interessi e minando quelli della controparte. L’Associazione Americana per l’Energia Eolica (AWEA) ha denunciato in questi giorni il “sabotaggio” di decine di progetti da parte del ministero della Difesa e della Federal Aviation Administration. La capacità energetica delle installazioni eoliche Usa, ha affermato l’Awea, si è ridotta del 71% rispetto al 2008.

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