“La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi. Potete respingere, non riportare indietro, è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata”. All’una del pomeriggio, quando il sole picchia forte sul ponte di poppa della “Majestic”, Katia legge al megafono le parole di Erri De Luca. Il popolo degli “sbarchini” applaude, c’è anche chi si commuove in questo momento in cui – per la prima volta a metà della navigazione – ci si ritrova tutti insieme. Per commemorare i caduti in mare, per ricordare chi ha tentato invano di sfuggire alla miseria del Maghreb o dell’Africa sub-sahariana cercando fortuna in Europa. Ma anche per denunciare, attraverso un viaggio simbolico di ritorno verso l’Italia che hanno lasciato da anni, il declino di un paese in preda alla corruzione, al malaffare, al clientelismo, all’intolleranza, persino alla xenofobia. Italiani emigrati, non più per pura necessità di sopravvivenza, come avveniva per i nostri padri: ma anche chi è partito inseguendo semplicemente un’occasione professionale, alla fine ammette che la distanza invita alla riflessione, ti spinge a vedere con maggiore distacco le storture del sistema.

Paola Manno vive a Bruxelles da quattro anni. Qui emigrarono i suoi nonni negli anni Cinquanta. Per questo ha deciso di andare a ritroso, di indagare sul passato, cercare di capire. Ha girato un documentario, “Lu core suttaterra”. Storie tragiche di una coppia di minatori, e di una vedova il cui marito morì di silicosi. Esperienze di un passato ormai tramontato, quando “era la donna che seguiva l’uomo, mentre ora va a lavorare nelle istituzioni, ricopre ruoli importanti”. Emigra, ma a volte rientra in patria. “Io, dopo 4 anni, ho deciso di tornare – dice Paola – Sono pugliese, vedo che si stanno muovendo molte cose, voglio provare”. Lei ripone qualche speranza in Vendola, ma poi c’è un piccolo gruppo arrivato dalla Sardegna per dire che le cose sull’isola governata da Cappelacci, vanno male.

Ecco, lo spirito della “nave dei diritti” è proprio questo. Ognuno dei passeggeri – più di quattrocento – che si sono imbarcati venerdì notte a Barcellona su questo traghetto proveniente da Tangeri, può portare la sua esperienza, raccontare un caso, arricchire l’agenda delle rivendicazioni. “All’inizio avevamo individuato cinque pilastri, i temi di riflessione che ci sembravano più importanti – confessa Andrea, uno degli organizzatori de “Lo Sbarco” – Lavoro, casa, istruzione, sanità, cittadinanza”. Ma poco a poco il dossier dei diritti da difendere si è esteso. Ci sono i promotori della campagna referendaria contro la privatizzazione dell’acqua voluta dal governo Berlusconi. C’è chi presenta l’iniziativa “La Rai siamo noi”, lanciata dai lavoratori della sede torinese della tv pubblica, ma che si sta estendendo a tutta Italia per denunciare come si stia progressivamente distruggendo “la più grande azienda culturale” del nostro paese, ormai “preda delle aggressioni della politica”. Migliaia di esuberi dichiarati per affidare la maggior parte delle produzioni all’esterno, ad aziende private. C’è chi denuncia le contraddizioni della politica di immigrazione di un paese che proclama la “tolleranza zero”, ma poi tollera, sempre più spesso, gli atti di xenofobia.

La traversata è lunga, sono quasi venti ore dalla Catalogna alla Liguria, ma il tempo vola, tra mostre, dibattiti, proiezioni di documentari, e momenti musicali, con Tonino Carotone che fa da mattatore, e il tributo a Fabrizio De André. E’ già tarda sera quando le luci del porto di Genova appaiono all’orizzonte. Un popolo pacifico si prepara allo sbarco, armato solo di idee, di fantasia e un po’ di nostalgia. Sul ponte più alto della nave, si canta “Bella ciao” e si piange.

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