Il reportage

Migranti, viaggio nel centro di accoglienza di Tripoli: “Sono 2mila, non ne entrano più. Salvini dice tutto ok? Ha visitato solo la dependance”

Reportage da Trik al-Sikka - Duemila uomini in gabbia, donne e bambini, risse e malattie: dal mare li portano qui. "Non possiamo più accogliere persone qui, abbiamo superato la soglia del doppio: la gente muore". Il caso del ministro dell'Interno che durante la sua visita in Libia forse a sua insaputa è stato portato dentro un "safe shelter" di fronte alle vere strutture di accoglienza

Di Pierfrancesco Curzi
4 Luglio 2018

Quasi duemila uomini in gabbia, benvenuti nel girone infernale di Trik al-Sikka, uno dei centri di detenzione co-gestiti dal governo di al-Sarraj e dalle organizzazioni umanitarie. Siamo nell’anticamera della morte, all’ultimo stadio, tra promiscuità, infezioni, risse sanguinose, cibo da vomitare e i volti increduli di uomini e ragazzi traditi pure dall’ultima speranza: “Non possiamo più accogliere migranti qui dentro, abbiamo superato la soglia base del doppio. La gente muore. Altri centri vengono chiusi per vari motivi e non sappiamo più dove mettere queste persone. Presto saremo costretti a non accoglierli più”.

Il dubbio è ormai concreto e Adel Aktasi, direttore del campo più popolato e al centro di Tripoli, aperto nel 2015, lo fa capire senza mezzi termini: “Continuiamo a ricevere telefonate dal ministero per nuovi migranti da mettere a Trik al-Sikka, ma non entra più uno spillo – aggiunge il direttore del campo –. Un’ora fa circa l’ultima richiesta, quando la Guardia costiera ha annunciato di aver recuperato circa 400 persone in mezzo al mare”.

Lunedì 25 giugno Aktasi ha accompagnato il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, nella sua visita-lampo nella capitale libica. Dopo aver incontrato il suo omologo del governo al-Sarraj, riconosciuto da Italia e Unione Europea, ma non considerato dal capo della Cirenaica, Khalifa Haftar, dalla Russia e dall’Egitto, Salvini ha fatto un salto in “un centro di detenzione”. Così Salvini l’ha raccontata: “Ho chiesto di visitare un centro di accoglienza e protezione che entro un mese sarà pronto per 1000 persone con l’Unhcr per smontare tutta la retorica nella quale in Libia si tortura e si ledono i diritti civili”. Il leader della Lega presentava quello spazio, quasi un albergo a cinque stelle, come lo standard della strategia vincente del governo italiano. Forse a sua insaputa, i libici lo hanno portato dentro un safe shelter, proprio davanti all’inferno di Trik al-Sikka, in pratica una sua dépendance. Basta attraversare la strada e si passa dai frigoriferi, dai letti a castello certificati e dall’aria condizionata, al buco nero dove realmente marciscono gli esseri umani arrestati in terra perché clandestini o soccorsi in mare e riportati indietro: “No, il ministro Salvini a Trik al-Sikka non è venuto, ha visitato il safe shelter davanti a noi” conferma Aktasi.

Ma cos’è questo rifugio sicuro? Fino a ieri era una delle tante strutture militari del regime di Gheddafi, preso in prestito dal governo di transizione prima e dagli uomini di Fayez al-Sarraj poi. Qui dentro trovavano riparo politici, militari e uomini d’affari di rango in caso di rischio per la propria sicurezza. Adesso, o meglio tra un mese, forse da settembre, più propriamente alla moda libica, bukhra munchen inshallah, ossia domani, forse, a dio piacendo – tradotto, aspetta e spera –, finirà con l’accogliere solo una minima parte di stranieri: “Potrà ospitare circa 500 persone alla volta, non di più – spiega un funzionario della sicurezza nazionale di Tripoli operativo tra i campi –. Lì dentro finiranno le persone fragili, ammalati, donne con bambini, ma soltanto delle sette nazionalità a cui la Libia riconosce la richiesta di asilo politico: Eritrea, Etiopia, Palestina, Somalia, Siria, Yemen e Darfour (Sudan). Gli altri? Resteranno al loro posto”.

Oltre diecimila, al massimo verranno spostati come birilli da un centro all’altro, a seconda della disponibilità. Con quelli di Gharyan e Sabratha inutilizzabili e quelli di Khoms e Trik al-Matar o difficili da raggiungere o in pesante sovraffollamento, il Dipartimento dell’immigrazione libico deve fare in fretta per reperire un nuovo centro e lo deve fare subito. Vista la deriva imminente, da alcune settimane Tripoli ha lavorato su un impianto a el-Djdeida, un altro ex compound militare inutilizzato e trasformato in prigione. Gli spazi ci sono, acqua e luce sono collegate, mancano solo i bagni: “Ci attiveremo all’istante per risolvere questo problema – rassicura Valeria Fabbroni, project manager di Helpcode, una Ong italiana, in questi giorni operativa nei centri di detenzione di Tripoli – La situazione a Trik al-Sikka e negli altri centri è ormai insostenibile, dobbiamo attivare il nuovo campo nel giro di pochissimi giorni”.

Nella sezione femminile di Trik al-Sikka, stamattina le donne sono tutte fuori, le stanze dove vivono stivate da mesi, molte con figli al seguito, sono state disinfestate. Dalle finestre fuoriesce il fumo denso e acre prodotto dalla sostanza chimica. Giornata di visite importanti, compresi gli ambasciatori della Germania e il nostro, Giuseppe Perrone, presente col suo staff al completo per una partita di calcio tra migranti dentro lo spazio recintato. Uno dei rari momenti ludici in mezzo a giornate piene di disperazione per i migranti.

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