Orfani d’onore

Mafie, viaggio tra i figli del clan: ecco la “generazione paranza” da strappare alla criminalità

Da Forcella a Reggio Calabria - Nascere qui spesso diventa una condanna preventiva, non solo per il cognome che si porta. Togliere i figli ai boss basterà per spezzare la malapianta?

Di Maddalena Oliva
17 Settembre 2018

Il sangue è sangue, dicono da queste parti. E il sangue si mastica, ma non si sputa. Pure quando fa male ingoiare. “Io in carcere da mio padre non ci volevo andare. Non era per lui. Mia madre mi diceva: ‘Vieni, ti devo portare’. E io niente. Ero piccolo, 5 anni. Ogni volta iniziavo a vomitare”, racconta A.

A. è nato e cresciuto a Forcella, a due passi dai Decumani e dalla via dei presepi, in quel quartiere che prima fu il Regno di Lovegino Giuliano e poi dei suoi nipoti: quei Giuliano che, insieme alla paranza dei fratelli Sibillo, hanno terrorizzato il centro di Napoli e ispirato la penna di Roberto Saviano. A. da anni non abita più nel ventre molle della città, ultima tra le grandi ad avere la periferia in pancia, A. vive a migliaia di chilometri di distanza.

“A casa siamo cresciuti solo con mammà, papà stava chiuso. Non è una novità di oggi per me pensare che il carcere faccia schifo. Una persona, per stare là dentro, non ha valore. Non ha carattere. Non ha la testa di dire: voglio vivere bene, voglio far crescere i miei figli come si deve anziché come rifiuti. Perché a Napoli già si cresce sbandati… i ragazzi, le madri, li prendono e li buttano in strada. L’ho capito meglio da quando sono lontano. Per me mio figlio deve crescere come dio comanda. Purtroppo io ho una famiglia in cui quasi tutti hanno precedenti. Forse sono l’unico che si salva, insieme a un fratello di mio padre. Per il resto, anche le donne da noi sono pregiudicate. Forse, restando a Napoli, cercavo la morte. Ora mi sento invece che sto cambiando perché sto iniziando a vedere la luce, davanti agli occhi. A Napoli vedevo solo buio perché frequentavo sempre il male. Immagino che la mia vita sarebbe stata molto diversa se fossi nato altrove. Immagino… però può darsi che sarebbe anche stata uguale, ma almeno non avrei dovuto frequentare persone che non andavano bene per me”.

Liberi di scegliere chi essere, chi diventare. Senza avere il destino segnato, solo perché si è nati con un determinato cognome, o in un determinato quartiere. Allontanare i minori da contesti familiari mafiosi, fino a togliere o limitare la responsabilità genitoriale, è una delle questioni più dibattute, e non solo all’interno della magistratura che si sta interrogando sul tema, grazie ai provvedimenti apripista adottati negli ultimi anni dai tribunali dei minori di Reggio Calabria e di Napoli.

Il presidente del Tribunale per i minori del capoluogo reggino Roberto Di Bella – che indossa la toga da 30 anni, più o meno quanti ha dedicato alla giustizia minorile – è convinto che la ’ndrangheta si erediti: “Sono a Reggio dal ’93. In tutti questi anni abbiamo trattato più di 100 procedimenti relativi a minori per reati di criminalità organizzata, e più di 50 processi per omicidio e tentato omicidio: oggi mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni ’90 più o meno per gli stessi reati. Tutti con lo stesso cognome. E il dato impressionante è che abbiamo di fronte una generazione che potevamo salvare, e che invece abbiamo abbandonato”.

La malapianta trae prima di tutto linfa dal sangue. Ma se usciamo dalla Calabria, e allarghiamo lo sguardo? I minori coinvolti in episodi criminali, spiega Gemma Tuccillo, a capo del Dipartimento per la giustizia minorile, dal punto di vista delle biografie presentano tratti convergenti: “Sono, nei profili più gravi, contigui alla criminalità organizzata per ragioni di appartenenza familiare, o per la provenienza da quartieri ad alta densità mafiosa. Più in generale, sono minori che vivono in zone periferiche e degradate, inseriti in contesti familiari segnati da disgregazione o da gravi forme di disagio affettivo, economico o abitativo”.

Qualche dato su tutti, solo guardando alla Campania: il 22% dei minori vive in condizioni di povertà relativa; 1 su 3 abbandona prematuramente la scuola; 7 bambini su 10 non sono mai andati a teatro o a visitare mostre; 7 bambini su 10 non hanno mai fatto sport. Ecco perché, secondo molti, “la diffusione dei comportamenti criminali, quando investe ampie fasce di popolazione giovanile come a Napoli e nel Sud, è innanzitutto un immane problema sociale e politico”, sottolinea Nicola Quatrano, giudice, ora in pensione, che tra tanti processi seguiti nella lunga carriera a Napoli si è occupato della paranza dei bambini. Per lui, la misura dell’allontanamento dei figli risponde a un’impostazione repressiva e sanzionatoria non tanto verso i tipi di reato quanto verso il contesto, la famiglia da cui si è nati.

“Una ‘sanzione’ aggiuntiva per quella che io chiamo ‘la criminalità della plebe’. Bisogna invece affrontare la questione con maggiore, e migliore, attenzione. Perché se è indubbio che crescere in un ambiente criminale può generare criminalità, è altrettanto vero che pure la deprivazione degli affetti familiari potrebbe provocare il medesimo risultato. Senza contare che non è affatto certo che interesse del bambino sia quello di diventare un disadattato onesto, piuttosto che un delinquente psichicamente equilibrato”.

“Se ci provano a toccarmi i figli, acca scoppia ’na guerra nuclear’”. Grazia ha quattro figli maschi. Due sono detenuti a “Poggi Poggi”, il carcere di Poggioreale a Napoli: uno con un ergastolo – il grande, 23 anni – e l’altro con una condanna a 14 anni da scontare. “Avessi fatto quattro femmine! Mi sarei coricata con meno pensieri…” e, mentre parla, i suoi grandi occhi azzurri sorridono, perché, come ama ripetere, nonostante tutto “più scuro della mezzanotte non può venire”. Grazia lava le scale tre volte alla settimana, venti euro al giorno quando va bene e lavora, e ha cresciuto quattro figli da sola – divenuta mamma a 16 anni – perché il marito era in carcere. “E ci è rimasto fino a quando non si sono fatti grandi i figli. Non siamo cattivi noi. È Napoli, è la città, che ti fa diventare cattivo. Però io non me ne andrei mai da casa mia. E non lascerei mai i miei figli andare lontano. Vivo per andarli a trovare in carcere, quella volta alla settimana. Io dico allo Stato: io a fare la mamma ci ho provato. Ho sbagliato. Giusto? Ma tu Stato che fai? Mi uccidi la vita, se mi togli un figlio. Uccidi la vita pure a lui”.

I risultati dei primi provvedimenti di allontanamento dei minori presi da Di Bella, a Reggio Calabria, raccontano altro. Così come anche le prime lettere che arrivano, non più solo dalle madri ma anche dai padri, in carcere, detenuti al 41bis. “Sono d’accordo con lei – scrive un boss a Di Bella – solo allontanandolo da questo ambiente, il mio bambino avrà un futuro migliore. Se avessi avuto io le stesse possibilità forse non sarei dove sono ora. Decida lei e stia tranquillo. Non farei mai più qualcosa che possa influire o danneggiare la vita di mio figlio”. “Questo ci dà speranza”, dice il procuratore. Spezzare i vincoli sacri del legame familiare sembra essere l’unico modo, per questi ragazzi, per aspirare a una vita diversa. Poi puoi scegliere, una volta compiuti i 18 anni, se tornare. Molti, specie le ragazze, non lo fanno. Di Bella lo chiama “Erasmus della legalità”. Entri in un mondo diverso. Torni a scuola, hai la possibilità di lavorare. Anche se i primi giorni, quelli del distacco, sono difficilissimi. Ma, in caso di genitori che manifestino segni di ravvedimento, si fa di tutto per mantenere i rapporti, anche se c’è di mezzo il carcere. Tu minore sei seguito passo passo da psicologi e da operatori qualificati come Libera, con Vincenza Rando e il suo prezioso aiuto. Proprio lei, che fu avvocato di Lea Garofalo e poi di sua figlia Denise.

Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza. E per evitarlo bisogna avere lo sguardo ampio. Quando entrano in campo magistrati come Di Bella o, a Napoli, Maria De Luzenbergher, è perché la situazione è già patologicamente endemica. Se in alcune zone del Paese la cultura del malaffare è diffusa e le famiglie sono sempre le stesse, vuol dire che la scuola ha fallito. “Non abbiamo ricevuto segnalazioni dalle scuole sulla dispersione dei ragazzi nemmeno durante la faida di San Luca, quando – abbiamo scoperto solo durante il processo – le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per paura di ritorsioni”. È proprio il sistema che sembra non reggere: sul piano culturale, sociale, economico. Basti pensare che su 97 comuni della provincia di Reggio Calabria, più dell’80% non ha servizi sociali. E anche nell’area di Napoli non va meglio: un assistente sociale ogni 5.600 abitanti. Ma per questo dovrebbe esserci la politica, dicono i magistrati. La sospensione o la perdita della responsabilità genitoriale è nel contratto di governo Lega-5 Stelle. Non è prevista per camorristi o ’ndranghetisti: solo per i rom.

 

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