“Via i rosari dalle nostre ovaie”: l’Irlanda che prega per l’aborto

21 Maggio 2018

“Get your rosaries off our ovaries” (via i vostri rosari dalle nostre ovaie). Alle celebrazioni della Giornata mondiale della donna, lo scorso 8 marzo a Dublino, sul palco prende la parola Ailbhe Smyth, coordinatrice nazionale della campagna irlandese per la legalizzazione dell’aborto. Un manifestante pro-life la interrompe: “Ma non capite che l’aborto è un omicidio?”. È allora che le migliaia di presenti scandiscono il vecchio slogan: “Get your rosaries off our ovaries”. Cronaca da un paese diviso nel profondo. Nella cattolica Irlanda l’interruzione di gravidanza è consentita solo in caso di gravissimi rischi per la vita della madre, ma dal 1983 l’ottavo emendamento della Costituzione equipara il diritto alla vita del feto a quello della donna, rendendo l’aborto un reato punibile con 14 anni di carcere.

Venerdì prossimo gli irlandesi sono chiamati a decidere se abrogare (Yes) o mantenere (No) l’ottavo emendamento. È la sesta consultazione popolare sul tema in 35 anni. Ma le precedenti riguardavano aggiustamenti minimi della legge. Venerdì prossimo può fare la storia, o sigillare, chissà per quanto, uno status quo doloroso. Dal 1983, sono almeno 170mila le donne costrette a furtivi e costosi viaggi all’estero: destinazione preferita il Regno Unito di Gran Bretagna, dove l’aborto è consentito fino a 24 settimane. Molte sono venute allo scoperto negli ultimi mesi: ne è emerso un racconto collettivo di 35 anni di solitudine e menzogne. Tuttora, sarebbero almeno 3500 gli aborti oltre confine; le donne che non si possono permettere viaggio e costi della procedura, circa 2000, ordinano pillole online. Nell’indire il referendum, a gennaio scorso, il primo ministro Leo Varadkar ne ha preso atto: “L’aborto è già una realtà in Irlanda, ma è pericoloso, non regolamentato e illecito… Non credo che la Costituzione sia la destinazione giusta per decisioni definitive in ambito medico, morale o legale. Quello che dobbiamo decidere è se continuare a criminalizzare le nostre sorelle, colleghe e amiche, o mostrare loro, collettivamente, empatia e compassione”.

Un gesto di notevole coraggio politico, possibile grazie agli straordinari cambiamenti avvenuti in Irlanda negli ultimi 20 anni. Ad innescarli, due fattori: la prosperità economica e la perdita di potere della Chiesa cattolica. Nel censimento del 2016, solo il 78% della popolazione si è dichiarato cattolico, erano il 91% nel 1991. Nel mezzo, gli anni degli scandali, la scoperta di tanti casi di abusi sessuali nelle scuole cattoliche, l’erosione della fiducia nell’istituzione ecclesiastica. La faticosa ricerca di una identità nazionale diversa da quella che con i valori cattolici si riconosceva quasi integralmente, anche in ambito politico, e la scoperta di una vocazione moderna e secolare.

Infine, nel 2015, l’esito del referendum sul matrimonio omosessuale, approvato con il 62% dei voti; a sorpresa, l’Irlanda è il primo paese al mondo a legalizzare le unioni dello stesso sesso via consultazione popolare. Anche per questo i due partiti principali, il Fine Gael in cui milita Varadkar e il Fianna Fail, tradizionalmente conservatori, si sono progressivamente spostati su posizioni liberali in materia sociale. E, in questa consultazione, hanno dato ai loro elettori libertà di coscienza, mentre il Labour, lo Sinn Fein e i Verdi sono schierati per l’abrogazione.

La politica ha parlato, ma a guidare la campagna referendaria è la società civile. Che si prepara almeno dal 2012, l’anno della tragica morte di Savita Halappanavar, 31enne dentista indiana, in Irlanda per completare gli studi. Il 21 ottobre di quell’anno, alla diciasettesima settimana di gravidanza, viene ricoverata al Galway University Hospital con atroci dolori alla schiena. È in corso un aborto spontaneo. Implora invano i medici di interrompere la gravidanza. Ligi alla legge, rifiutano: il cuore del feto batte ancora. Savita muore di setticemia una settimana dopo. Quando la notizia esce sull’Irish Times, 3000 persone marciano sul Parlamento al grido di “mai più”. Tre giorni dopo sono 20mila. È l’inizio di una mobilitazione di massa che coinvolge, su fronti opposti, anche persone mai prima interessate alla politica attiva.

Il “Sì” è maggioritario nei centri urbani e fra i giovanissimi, tanto che la data del referendum è stata scelta per consentire la partecipazione degli studenti prima delle vacanze universitarie. Il “No” prevalente nelle zone rurali e fra gli anziani. Una partecipazione che crea lo spazio politico per convocare il referendum. Fino a marzo, il “Sì” ha una confortevole maggioranza assoluta nei sondaggi. Poi, Varadkar commette un errore che potrebbe rivelarsi fatale: il suo governo diffonde una bozza del disegno di legge da sottoporre al Parlamento in caso di vittoria del “Sì”. Prevede l’aborto libero, praticamente senza restrizioni, fino a 12 settimane, poi solo in caso di rischi per la vita. Di fronte ad un bivio così netto – nessuna libertà o quella che i sostenitori del “No” definiscono “la libertà di usare l’aborto come contraccettivo” – cresce rapidamente la percentuale di indecisi. A quattro giorni dal voto, per le irlandesi la libertà di autodeterminazione già garantita alle donne in quasi tutta Europa è ancora da conquistare.

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