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“Io non faccio il rapper per fare il criminale, ma per salvarmi. La mia tarantella? Il naso che mi ha bloccato e fatto venire ansia e tachicardia”: così Enzo Dong

Il rapper ha raccontato, a FqMagazine, la genesi del disco. Arrivata dopo un lungo periodo buio, tra problemi di salute, pressioni psicologiche e la lotta quotidiana con sé stesso e con ciò che lo circonda

di Andrea Bressan
“Io non faccio il rapper per fare il criminale, ma per salvarmi. La mia tarantella? Il naso che mi ha bloccato e fatto venire ansia e tachicardia”: così  Enzo Dong

“Non faccio il rapper per fare il criminale, l’ho fatto per salvarmi da un’ipotetica vita criminale che avrei potuto intraprendere, disgraziatamente, se non avessi trovato altro da fare nella vita”, così Enzo Dong che, dopo una lunga attesa, è tornato. E lo ha fatto facendo uscire il suo nuovo album, “Life Is A Tarantella”. Una pubblicazione tanto attesa quanto, a tratti, inaspettata. Il punto zero di una nuova fase artistica e personale, dopo il suo primo disco “Dio perdona io no”, uscito nel 2019. Il progetto presenta dieci tracce e tre featuring (Pyrex, Lady Dong e Lele Blade). I pezzi sono prevalentemente trap. C’è qualche accenno al reggaeton, una citazione ad Anna Pepe e un’alternanza di brani da club con altri più romantici, introspettivi. Il rapper di Secondigliano ha raccontato, a FqMagazine, la genesi del disco. Arrivata dopo un lungo periodo buio, tra problemi di salute (“Non respiravo più bene da un annetto”), pressioni psicologiche (“Ci sono stati un bel po’ di rallentamenti che mi hanno portato un po’ fuori strada”) e la lotta quotidiana con sé stesso e con ciò che lo circonda.

“Vi ho fatto aspettare tanto, ma non sapete quanta sofferenza c’è stata dietro questo periodo oscuro”, hai scritto su Instagram. Che fine ha fatto Enzo Dong?
In questi anni sono successe tante cose. Quella principale, che mi ha stoppato musicalmente, è stata una problematica al naso che ho avuto negli ultimi anni. Non respiravo più bene da un annetto, avevo i turbinati praticamente atrofizzati. Dopo l’operazione ho continuato ad avere ancora problemi che, a loro volta, mi hanno scatenato altre cose come la claustrofobia, ansia e tachicardia. Tutta una serie di reazioni a catena per via di questo problema di salute che ho avuto. Questa cosa mi ha impedito anche di registrare, mi ostacolava il cantare. Anche per i live ho avuto problemi.

Un periodo duro…
Poi i problemi non arrivano mai da soli, arrivano sempre tutti quanti insieme. Non avevo neanche lo studio, dopo il covid. La pandemia mi ha fatto ritardare tutta una serie di progetti che stavamo mettendo sul piano manageriale. Ci sono stati un bel po’ di rallentamenti che mi hanno portato un po’ fuori strada.

Sei riuscito ad andare oltre le difficoltà?
Sì, siamo riusciti a riprendere la situazione in mano e ci siamo rimessi subito al lavoro. La gente attendeva un mio progetto da un bel po’ di anni.

Nonostante tutto, negli anni hai pubblicato musica in modo sporadico. Dal 2019 non uscivi con un disco, il che si scontra con l’attitudine odierna di essere sempre presenti: hai mai avuto paura di venire dimenticato?
Questa è proprio una cosa che odio della società e dei social attuali. La odio a più non posso perché amo la produttività, fare musica è la mia passione e, se non facessi questo, starei male. E infatti sono stato male anche perché stare fermo non è bello. L’iperproduzione di musica però, secondo me, la sta rovinando. Sta diventando veramente troppo veloce. La gente non ha più tempo di affezionarsi a un brano, a un disco. Questa cosa dovrebbe essere presa in modo diverso dagli artisti, dalle etichette e da tutta l’industria musicale. Altrimenti finisce che la musica si brucia. Per quanto riguarda la paura di essere dimenticato, ammetto che è stato un pensiero che mi ha fatto stare male in questi anni.

Qual è il tuo significato di “Life Is A Tarantella”?
È proprio l’emblema di questo periodo. A Napoli si dice che la Tarantella sono i guai e, il titolo, rispecchia tutti i problemi che ho avuto in questi anni. Un po’ pure per abbattere lo stereotipo del rapper che vive la vita senza problemi. In realtà il rap nasce dallo struggle (la lotta quotidiana, la resilienza, le difficoltà sociali, economiche e personali, e la voglia di riscatto partendo dal niente, ndr), dalle tarantelle, detto in napoletano.

Quando hai iniziato a scrivere le prime tracce?
Un annetto fa. Lavorare con i fratelli, con le persone con le quali ti trovi bene, è la via più veloce e più facile per fare della buona musica. Sono sempre aperto a collaborare con tutti però, ovviamente, dopo un periodo che mi aveva portato un po’ fuori strada, la prima cosa che potevo fare era collaborare con dei miei amici, come Pyrex.

Lele Blade, invece?
Ho scoperto una grande amicizia in questi anni con lui. Mi ha fatto molto piacere che mi abbia supportato subito nel progetto. È stato partecipe, si è inserito. Tanti artisti sono stati invitati nell’album ma ognuno è preso dai suoi dischi, dai suoi progetti. E per me, rientrare in pista, arrivare subito a gamba tesa con tantissimi featuring, non è stato facile. La lavorazione che c’è dietro ai dischi è molto grossa, la gente non immagina quello che c’è dietro.

In “We The Best” dici di aver fatto il palo per strada. Ti senti uno dei megafoni per i ragazzi di un certo tipo di periferia?
Sì, anche perché ho vissuto molto il quartiere quando ero piccolo. Poi il rap per fortuna mi ha salvato da certi contesti che mi avrebbero portato al disastro. Se non avessi fatto il rapper non so quale guaio nella vita avrei fatto. Sicuramente in qualche tarantella vera mi sarei trovato, anche un po’ da stupido. Essendo “bravi ragazzi nei brutti quartieri”, il rischio è di affascinarsi a situazioni senza accorgersene. Mi fa molto piacere rappresentare i ragazzi del quartiere, che è sempre stato il mio motto alla fine. Dong sta per il mio quartiere, Rione Don Guanella.

Vivi ancora a Secondigliano?
Sì, “non c’è casa come casa tua”.

I problemi ci sono ancora ed è importante se ne parli: artisti come te e Geolier sono riusciti a sfuggire da certe dinamiche di strada. Da cosa potrebbero partire i ragazzi per svoltare la propria vita?
I ragazzi di oggi dovrebbero concentrarsi a trovare la propria passione. Ok il rap, che comunque dà una chance a molti ragazzi, però il consiglio che darei è quello di trovare la propria passione e non seguire quella degli altri, quella che ti impongono i social o quella che va di moda. Oggi il rap va pure un po’ di moda ma, quando io o Geolier abbiamo iniziato a fare rap, era una cosa che è partita da noi, contro ogni aspettativa. Non c’era la moda che tutti erano rapper. Abbiamo creduto nel nostro, buttandoci in questa strada che sembrava battuta da poche persone. Invece oggi i ragazzi seguono la strada che stanno battendo un po’ tutti. Il successo non è solo materiale, è anche una soddisfazione personale.

“Se voi siete la strada, io sono la superstrada”, dici in “Gangsta Gangsta”. Alcuni rapper millantano di essere qualcosa che non sono?
È una citazione anche un po’ ironica, infatti nel pezzo si sente un pernacchio. Però sì ci sono tanti un po’ con il mito del personaggio, di 50 Cent, del rapper gangsta. Io sono di Secondigliano e sono cresciuto nel mio rione. Ho visto molti contesti e situazioni pericolose e, nonostante ciò, non mi sono mai proclamato “gangster”. Non sono mai stato un criminale, per fortuna. Quando però vedo emulare troppo certe cose mi dispiace perché, secondo me, dobbiamo dare ai ragazzi un altro esempio. Io non faccio il rapper per fare il criminale, l’ho fatto per salvarmi da un’ipotetica vita criminale che avrei potuto intraprendere, disgraziatamente, se non avessi trovato altro da fare nella vita. È questo il messaggio che dobbiamo dare.

Cosa ne pensi di Luchè a Sanremo?
Sono felicissimo per lui. Sono un grande fan di Luchè da sempre, dai Co’Sang. Facevo pure le doppie ai live dei Fuossera quando ero piccolissimo. Vedere Luchè a Sanremo è una soddisfazione perché è comunque il mio mito da sempre. Gli faccio un in bocca al lupo e spero spacchi tutto.

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