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Con la morte di Sebastião Salgado viene meno l’importanza della sua missione in un tempo nero

"Se Sebastião Salgado è tutto questo, risulta perfino riduttivo disquisire solo di fotografia"
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“Quando guardi queste immagini, non stai guardando solo belle immagini fini a se stesse, non stai guardando solo una storia. Stai guardando la mia vita”. (Sebastião Salgado)

Scrivere di Salgado ora che se ne è andato? E cosa dire? Salgado è il mondo, inteso come pianeta Terra, è la terra, intesa come Madre Terra, è l’uomo, inteso come l’umanità tutta. E allora, se Sebastião Salgado è – e parliamo al presente – tutto questo, risulta perfino riduttivo disquisire solo di fotografia.

Quello che drammaticamente viene a mancare è il suo ruolo, l’importanza della sua missione proprio ora, in un tempo nero di trumpismi rampanti che ribaltano un po’ ovunque il suo messaggio.

Per comprendere la direzione del suo percorso basterebbero i titoli dei suoi progetti principali: Altre Americhe, La mano dell’uomo, In cammino, Genesi, Amazzonia. A ognuno di essi ha dedicato anni di lavoro e fatiche indicibili. Ce ne sono naturalmente anche altri, e tutti sono orientati a mostrare la sopraffazione degli esclusi ma anche la solidarietà, la natura in pericolo ma anche la meraviglia della sua bellezza quando viene preservata.

Non dobbiamo dimenticare come questa visione si è formata in Salgado, in che misura nel suo caso l’uomo e il fotografo coincidono totalmente (dovrebbe essere sempre così, ma non è sempre così): la sua formazione universitaria è da economista, molto prima di incontrare la fotografia. Dunque una visione degli eventi che parte dalla comprensione delle ragioni, sempre riconducibili al denaro e al profitto. Una deriva che illude di creare ricchezza mentre impoverisce, che proclama il liberismo negando la libertà.

Lui aveva questa consapevolezza, questa lucidità, e contemporaneamente aveva la grazia estetica unita alla precisione tagliente delle sue impareggiabili fotografie. Narrazione e denuncia, bellezza e dramma, bianco e nero. La sua America Latina – era brasiliano – e la sua Europa, parigino d’adozione da moltissimi anni. Ma cittadino del mondo, e non so immaginare chi abbia viaggiato più di lui.

E poi Lélia, Lélia Wanick, sua moglie, sua complice, sua collaboratrice, colei che lo spinse a intraprendere la professione di fotografo. Lélia, con l’energia per gestire la loro agenzia Amazonas Images, pianificare i progetti incredibilmente complessi di Sebastião e contemporaneamente crescere i loro due figli col padre sempre via.

Tralasciamo la sterminata biografia costellata di premi e riconoscimenti, le mostre, i libri, le operazioni umanitarie scaturite dai suoi lavori fotografici. Per documentarsi su questo tutti sappiamo come fare.

Dice un proverbio zen che nella vita bisogna fare tre cose: avere un figlio, scrivere un libro e piantare un albero. Esaurite le prime due, quanto all’indicazione sull’albero Salgado sembra averla presa molto sul serio: ne ha piantati oltre tre milioni, di alberi. I terreni della casa-fazenda di suo padre in Brasile, che da bambino ricordava come una foresta rigogliosa, al suo ritorno negli anni ’90 gli apparvero completamente disboscati e aridi. Con sua moglie creò allora una fondazione no-profit per raccogliere fondi (anche con la vendita delle sue fotografie) e oggi quei terreni, circa 700 ettari, sono stati ripiantumati con oltre tre milioni di alberi.

E mi piace pensare, in modo del tutto arbitrario e fantasioso, che siano tre milioni anche le foto da lui scattate: una foto per ogni albero, un albero per ogni foto.

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