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Il cpr, l’Albania, il carcere, il suicidio: oggi l’autopsia di Hamid Bodoui. Don Ciotti: “Assurdo e disumano”

Trattenuto nel cpr di Bari, era finito a Gjadër e poi liberato. A poche ore dal rientro a Torino, un controverso arresto per resistenza e il suicidio, appena prima dell'udienza di convalida.
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A Torino è il giorno dell’autopsia di Hamid Bodoui, il 42enne di origini marocchine che si è tolto la vita nel carcere Lorusso e Cutugn lo scorso 19 maggio, poche ore prima di essere portato in tribunale per l’udienza di convalida del suo arresto. La Procura ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di istigazione al suicidio, affidando l’indagine al pubblico ministero Paolo Scafi. Al suicidio, il trentaduesimo nelle carceri italiane nel 2025, sono seguite immediate polemiche sulla reale necessità dell’arresto e perché Bodoui era appena rientrato a Torino dopo 33 giorni di trattenimento a Gjadër, in Albania, nel centro per il rimpatrio (cpr) voluto dal governo Meloni del quale lo stesso Bodoui aveva confidato “meglio il carcere che questo posto”. Incastrato nel cosiddetto circuito delle “porte girevoli” tra cpr e carcere col timore, chissà, di finire ancora in Albania. A Torino lascia la madre e la sorella, entrambe regolarmente residenti. E’ stata la sorella, Zahira, a dire che suo fratello non aveva mai pensato di togliersi la vita. “Una sconfitta per tutta la società: è stato sballottato in un’odissea burocratica che si rivela ancora una volta assurda e inumana”, è il duro commento di Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele che a Torino seguiva anche Hamid Bodoui.

Badoui viveva in Italia da 15 anni ed era noto per le sue condizioni di marginalità e fragilità, con difficoltà burocratiche legate al permesso di soggiorno e una dipendenza dal crack che lo portava a vivere di espedienti e furti e lo aveva allontanato dalla residenza dei familiari. La storia recente è complessa: trattenuto nel cpr di Bari, era poi finito a Gjadër, nell’ambito del protocollo Italia-Albania. Era stato riportato in Italia dopo che un giudice di pace non aveva convalidato il trattenimento, sollevando dubbi sulla legittimità costituzionale del provvedimento. Tornato a Torino da meno di quarantotto ore, sabato pomeriggio in corso Giulio Cesare, dopo aver subito un furto di una scheda sim, si era rivolto alla polizia ma, di fronte all’impossibilità di recuperare quanto gli era stato rubato, aveva reagito con un calcio all’auto degli agenti, venendo subito arrestato per resistenza, oltraggio e lesioni. Un arresto avvenuto tra le proteste di una cinquantina di persone che lo descrivevano come stremato e non lucido. Condotto in carcere, dopo ventiquattrore si è impiccato con i lacci delle scarpe, appena prima dell’udienza di convalida dell’arresto che, è stato detto, non sarebbe stato confermato.

Il sindacato Sappe della polizia penitenziaria, esprimendo cordoglio ha richiamato l’attenzione sull'”emergenza nazionale” del disagio psichico e del rischio suicidario in carcere. Chiedono “un cambio di passo concreto e immediato” con più servizi psicologici, organico e formazione che, spiega, i sindacati chiedono da tempo senza risultati. Le consigliere regionali del Piemonte Alice Ravinale e Sara Diena (Avs-Se) definiscono il suicidio “emblematico del corto circuito della propaganda securitaria” e mettono in discussione la necessità dell’arresto per il reato commesso: “Non si può rispondere con il carcere al disagio sociale”. A confermare quello di Hanid sono state le operatrici sociali che lo conoscevano e seguivano, e così il Gruppo Abele di Don Ciotti, con cui l’uomo aveva contatti e che stava per aiutarlo con un percorso di disintossicazione. Lo ricordano come “un ragazzo tranquillo”, “non violento”, che aveva espresso la volontà di cambiare vita.

Oltre al sistema penitenziario, la sua morte ha sollevato denunce anche contro le politiche migratorie. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) parla di “ennesima vittima di un sistema repressivo che disumanizza e divide la società”, criticando l’uso dei corpi dei migranti come “strumento propagandistico”. Il Tavolo asilo e immigrazione (TAI) ha espresso “profondo dolore e rabbia”, definendo la morte “conseguenza diretta di un impianto politico basato sulla paura e sulla coercizione”, le condizioni nei cpr italiani e in Albania come “degradanti” e i suicidi come “sintomo”. Concorde le garante dei diritti dei detenuti di Torino, Monica Gallo, definisce il sistema dei cpr “inutile e lesivo della dignità umana”, sottolineando come storie come quella di Hamid siano frequenti e mostrino la mancanza di riconoscimento della dignità dello straniero. Comprende la frase di Hamid “Meglio il carcere che il cpr”, definendo i CPR “un tempo vuoto”, “gabbie che mortificano l’essere umano”. Critica l’insistenza del governo su modelli inefficaci come quello albanese o i nuovi cpr regionali, parlando di “assoluta mancanza di ragionamento” e “clima di assoluta indifferenza”.

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