Dopo il fragile cessate il fuoco tra India e Pakistan, restano aperte le vere sfide

Il cessate il fuoco tra India e Pakistan è arrivato come un sollievo temporaneo, ma lascia sul tavolo molte domande scomode e, forse, qualche verità difficile da accettare. Dal mio punto di vista, l’India esce da questa crisi in una posizione più debole di quanto si aspettasse: dopo settimane di escalation e minacce, ha accettato la tregua senza risultati visibili. È come se tutto il rumore prodotto si fosse spento nel nulla.
Quello che mi colpisce è che non solo il governo indiano e il suo esercito sembrano usciti ridimensionati, ma anche i suoi alleati. Penso alla Francia, che ha sempre pubblicizzato i suoi caccia Rafale come imbattibili: invece, in questa occasione, non solo non hanno dominato i cieli, ma sono sembrati poco incisivi anche per colpa delle prestazioni non eccellenti dei piloti indiani. E che dire di Israele? I suoi droni Harop, solitamente celebrati come il top della guerra tecnologica, sono stati abbattuti con troppa facilità.
Anche la Russia, a mio avviso, avrà qualcosa su cui riflettere. Il suo celebre sistema di difesa S-400, attorno al quale ha costruito gran parte della propria narrazione militare, non ha dato i risultati sperati. E poi ci sono gli Stati Uniti: Washington ha investito moltissimo nell’India per contrastare la Cina, ma questa crisi, sempre secondo me, mostra quanto New Delhi non sia ancora pronta a quel ruolo.
E qui entra in gioco il Pakistan, che – va detto – ha saputo muoversi meglio. Almeno sul piano dell’immagine, Islamabad sembra aver gestito la situazione con più lucidità. Ma attenzione: non è il momento di esultare troppo. Anzi, io credo che ora serva uno sforzo vero per costruire una strategia solida, soprattutto sul fronte dell’acqua, una risorsa tanto vitale quanto contesa. Il Trattato dell’Indo del 1960 esiste ancora, ma oggi andrebbe rivisto alla luce dei nuovi squilibri. Secondo me, Islamabad dovrebbe guidare una rete di cooperazione tra i paesi “a valle” di grandi fiumi, come quelli lungo il Nilo o il Gange. Solo unendo le forze si può contrastare chi controlla le sorgenti.
A mio avviso, però, un segnale positivo in mezzo a questo quadro complesso c’è stato. Paradossalmente, lo dobbiamo a Donald Trump. È stato lui, nel pieno di questa fase tesa, a riportare il tema del Kashmir sotto i riflettori internazionali. Che lo abbia fatto per convenienza politica o per reale interesse poco importa: quello che conta è che, grazie alla sua uscita, il mondo ha ricominciato a parlare di una delle crisi più trascurate ma pericolose del nostro tempo. Io spero davvero che questa tregua, almeno, serva a far ripartire il dibattito su una soluzione equa e duratura per il Kashmir. Perché finché questa ferita resta aperta tra due potenze nucleari, nessun vero cessate il fuoco sarà mai definitivo.