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I Tecnotitani riscrivono le regole del capitalismo: stiamo vivendo l’assalto finale al concetto di bene comune

Di fronte a tutto questo, che fare? Possiamo continuare a nutrire la nostalgia di un passato idealizzato, o sottrarre la tecnologia al monopolio dell’élite digitale
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Viviamo sotto un regime invisibile. Non ha confini geografici né eserciti in divisa, ma governa con il consenso passivo di miliardi di utenti. È il feudalesimo 4.0, dove i signori non indossano armature ma hoodie, e il potere si misura in terabyte. I nuovi vassalli? Noi. Umani disintermediati, ridotti a pacchetti di dati, consenzienti e perfino grati per il privilegio di poter scorrere, postare, ordinare.

Mentre la politica si dibatte impotente tra burocrazie obsolete e populismi di plastica, i Tecnotitani — gli oligarchi della rivoluzione digitale — riscrivono le regole del capitalismo. Non più produzione, ma estrazione: non di petrolio, ma di attenzione e dati personali. Il carburante della loro ricchezza è l’algoritmo, e l’algoritmo ha un solo imperativo: monetizzare ogni secondo della nostra esistenza.

Gli esempi della nuova sudditanza sono tanti. Uber, violando apertamente la legge fin dai suoi primi mesi di vita a San Francisco, ha imposto un modello di business costruito sul disprezzo per le norme vigenti. Travis Kalanick rispose con un secco “non fare nulla” ai dipendenti che gli chiedevano come comportarsi quando le autorità pretesero il rispetto delle regole. E funzionò. Le regole non servivano più. Bastava avere l’app giusta. Anche Amazon ha seguito lo stesso percorso: grazie alla tecnologia, ha potuto operare all’interno di aree grigie del diritto del lavoro, precarizzando i suoi dipendenti in nome dell’efficienza logistica. Le condizioni di lavoro nei magazzini sono state documentate: sorveglianza continua, ritmi disumani, algoritmi che decidono chi deve essere licenziato.

Nel frattempo, lo Stato arretra. Non per incapacità, ma per strategia. I governi, sedotti dalla retorica dell’innovazione e dalla promessa di efficienza, hanno spalancato le porte a chi prometteva di “disintermediare” e “ottimizzare”. Basta ricordare chi era in prima fila all’inaugurazione di Donald Trump. Così Elon Musk ha potuto lanciare la costellazione Starlink senza alcuna regolamentazione sovranazionale, cablando l’orbita terrestre bassa per aumentare i suoi profitti. Il risultato? La militarizzazione privata dello spazio, non l’accesso alla rete per i più svantaggiati.

La narrazione dominante ci invita a vedere in questi magnati dei visionari, dei salvatori. Ma la verità è che stiamo vivendo l’assalto finale al concetto stesso di bene comune. Come nel caso di Ftx, la piattaforma di scambio criptovalute fondata da Sam Bankman-Fried e collassata nel 2022, che si è rivelata uno schema Ponzi colossale travestito da filantropia digitale. Una truffa fatta passare per progresso che ha messo a nudo una realtà agghiacciante: il denaro digitale, cuore pulsante del tecnocapitalismo, non appartiene davvero ai cittadini, ma alle piattaforme che lo gestiscono.

Ma non basta: pochi giorni fa la penisola iberica ha subito un gigantesco blackout. Non funzionava più nulla, le ambulanze non comunicavano con gli ospedali, le torri di controllo non parlavano con gli aerei, le pompe di benzina erano ferme, se la spina si stacca si ferma la nostra vita, ci abbiamo mai pensato? E’ irrilevante se il blackout sia stato frutto di un sabotaggio o di un cattivo funzionamento della rete, è il risultato che conta. E la Bbc commentando quanto avvenuto ha suggerito di avere in casa cibo, acqua, candele e una radio FM per essere pronti al prossimo blackout.

Che succede? E’ questo un ritorno improvviso all’età pre-industriale — ma con un paradosso: il blackout non ha colpito una società rurale, bensì una civiltà completamente digitalizzata, interamente dipendente dalla rete. Quando la tecnologia si rompe, non abbiamo più alternative: il presente si dissolve e il futuro evapora. È stato questo, più di tutto, a terrorizzare la popolazione: la presa di coscienza che in assenza della rete non c’è autonomia, non c’è resilienza, non c’è memoria.

E allora, di fronte a tutto questo, che fare? Possiamo continuare a nutrire la nostalgia di un passato idealizzato, oppure possiamo riprenderci la tecnologia. Non distruggerla, ma sottrarla al monopolio dell’élite digitale. Imparare come funziona, decodificare il suo linguaggio, usarla per costruire reti distribuite, spazi pubblici digitali, economie partecipative. In altre parole: riportare la tecnica al servizio della società per la quale e dalla quale è stata creata. Perché se è vero che stiamo entrando nell’Antropocene digitale, allora dobbiamo decidere chi vogliamo essere: dati e utenti o individui liberi e cittadini?

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