Polsi legati ai migranti in Albania, Piantedosi: “Normale”. Ma l’Autorità: “Norme disattese sistematicamente”

La maggior parte delle persone sbarcate venerdì a Shengjin, in Albania, aveva i polsi legati da fascette di velcro. “Da quando sono saliti sulla nave a Brindisi e fino a prima di entrare a Gjader”, quindi per almeno dieci ore, riporta la delegazione di parlamentari e legali del Tavolo asilo e immigrazione entrata sabato nel centro. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha detto di rivendicare e condividere la misura: “L’utilizzo delle fascette? È una normalissima pratica, fa parte delle procedure operative che adottano in loro piena autonomia gli operatori”. L’europarlamentare del Pd Cecilia Strada ha detto invece di volere chiarimenti. “E come dovevano trasferirli? Con le mimose? Con la colomba pasquale, con l’uovo pasquale?”, non ha mancato occasione di esternare il leader della Lega, Matteo Salvini. E tuttavia non è questione di opinioni, perché esistono direttive ministeriali sui trasferimenti dei migranti durante le operazioni di rimpatrio forzato che richiamano esplicitamene decisioni e normative europee. Regole che tuttavia vengono disattese “in maniera sistematica, senza valutazione della necessità e proporzionalità della misura”, dice la ricerca “Rimpatri forzati e pratiche di monitoraggio“, pubblicata ieri dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari assieme all’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale della Puglia. La ricerca spiega che l’uso sistemico della coercizione è favorito proprio dal contesto organizzativo delle operazioni di rimpatrio che spesso prendono le persone alla sprovvista, senza averle preparate e spingendole a reazioni che producono una pressione altrettanto sistemica sugli operatori di polizia.
Le regole Ue e internazionali – Gli standard internazionali ed europei, recepiti in Italia dalle direttive ministeriali, sottolineano la necessità di limitare l’uso della forza ai casi strettamente necessari, nel rispetto della dignità e dell’integrità fisica della persona. Lo dicono anche le Linee Guida di Frontex: “Il ricorso a misure coercitive non deve essere sistematico e deve essere giustificato in ogni caso da una valutazione individuale del rischio”. Secondo la normativa europea (la Direttiva rimpatri ma anche Decisione Ce 573/2004, richiamate esplicitamente nelle direttive ministeriali), nei trasferimenti di persone in vista del rimpatrio, la coercizione può essere esercitata solo in caso di opposizione al rimpatrio, ribadendo i principi di necessità e proporzionalità e non per l’intero tempo del trasferimento. Inoltre, gli agenti devono sempre tentare prima la via del dialogo e del convincimento. Quando al rischio di fuga, dice ancora Frontex, non puo essere “ipotetico”, ma “serio ed immediato”. Insomma, ci sono limiti precisi da tenere presenti perché le misure di contenimento possono tradursi in trattamenti inumani o degradanti.
In Italia – Le direttive ministeriali sulla materia autorizzano l’uso della Velcro strap handcuff (manette con cinturino in velcro) e del French body cuff (cintura con varie cinghie per i polsi) nei confronti di chi si oppone “attivamente” all’allontanamento, secondo il Codice penale e gli standard europei, compreso il divieto di effettuare il trasferimento ad ogni costo se comporta un coefficiente di coercizione sproporzionato o lesivo della dignità della persona. Ed è così che funziona? La questione non è nuova. “Continua a registrarsi un ricorso intensivo e illegittimo delle fascette in velcro applicate ai polsi dei rimpatriandi in difformità dei principi di necessità, proporzionalità e ricorso come misura di ultima istanza”, scriveva nel 2018 il presidente del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma nel rapporto sull’attività di monitoraggio delle operazioni di rimpatrio forzato. Oggi è lo stesso Garante nazionale, sempre nel ruolo di Autorità nazionale di monitoraggio delle operazioni di rimpatrio, a dire come stanno le cose. La ricerca sui rimpatri forzati curata da Giuseppe Campesi insieme a Elisabetta de Robertis, Francesco Oziosi riferisce quanto osservato dai monitor del Garante, evidenziando una situazione in cui tali standard operativi sono largamente disattesi durante le operazioni di rimpatrio. L’Autorità nazionale di monitoraggio segnala un utilizzo “sistematico” e “indiscriminato” delle fascette di velcro, senza una valutazione della necessità e proporzionalità della misura, suggerendo che la cosa rifletta “abitudini” e prassi consolidate più che esigenze specifiche.
La ricerca sul monitoraggio – Il ministero dell’Interno giustifica l’uso generalizzato delle fascette con le particolari esigenze operative e condizioni strutturali delle operazioni collettive di rimpatrio, che richiedono la gestione di un numero elevato di persone potenzialmente oppositive. L’Autorità di monitoraggio contesta questo approccio precauzionale, ribadendo che la decisione sull’uso della contenzione deve essere sempre individualizzata e basata su circostanze specifiche. La ricerca parla di un uso della coercizione “organizzato”, tanto da avviare un processo di normalizzazione in cui le scelte dei singoli agenti sono dettate dalle storture del sistema delle operazioni di rimpatrio. La prassi italiana dei rimpatri non annunciati, mantenendo nascosta la data del rimpatrio e impedendo contatti con familiari o legali, è indicata come una forma di violenza psicologica che incrementa lo stress e la probabilità di eventi critici. Infine, si riscontra anche la tendenza a giustificare il ricorso alla coercizione con la necessità di controllare l’autolesionismo dei rimpatriandi, piuttosto che la loro resistenza attiva. Quanto visto venerdì in Albania con le fascette di velcro ai polsi, dunque, risulta già qualcosa di sistematico e non sempre giustificato dalle specifiche circostanze.