“Non sono un uomo di lettere. Non sono uno scrittore. Dopo un padre di famiglia sono un romanziere”. L’identità complessa e spesso celata di Georges Simenon, “il padre di Maigret”, rivive fino all’8 aprile 2026 in tutta la sua straordinaria sofferta complessità umana e letteraria nei meandri sotterranei del Cinema Modernissimo di Bologna in una mostra fotografica, esposizione documentale, percorso induttivo, che parte proprio da quella puntigliosa definizione concettuale.
“Otto viaggi di un romanziere” si intitolano la mostra e il volume che la accompagna, curate entrambe da John Simenon (figlio 76enne di Georges e della seconda moglie Denyse Ouimet) e Gianluca Farinelli (direttore della Cineteca di Bologna che ospita). Nello splendido volumone d’altri tempi, peraltro, vi è stampigliata una foto in bianco e nero, che è poi quella dei manifesti della mostra che campeggiano sui viali di Bologna da mesi, dove sembra echeggiare un Maigret con la pipa, ma che altri non è che Simenon stesso nel 1957 in una sorta di osservazione perlustrazione dei Navigli milanesi.
Del resto il rapporto del romanziere belga con l’Italia è chiaramente peculiare e finanche intimo. Proprio come spiegato in mostra nel viaggio numero 6 – Simenon e l’Italia – il legame prima di tutto editoriale, poi amicale e professionale, diventa ricorrente, denso, imponente. I Maigret e alcuni “romans durs” (“in questi romanzi ha messo il meglio di sé, scrivendo in uno stato di tensione che rasentava la sofferenza”, scrive Benoit Denis) iniziarono ad essere pubblicati da Mondadori in Italia fin dal 1932.
Il lungimirante Arnoldo Mondadori da Segrate riuscì perfino a perforare la stretta censura fascista per poi prorompere nel colpo di genio, iconografico e comunicativo, come mai prima: le copertine dei Maigret affidate a Ferenc Pinter dal ’61 al ’78 e soprattutto l’assist per il commissario Maigret televisivo, figlio di Andrea Camilleri e con il broncio borbottante di Gino Cervi (e Andreina Pagnani alias “signora Maigret”) che diventeranno “i vicini di casa di tutti gli italiani che possiedono una televisione”. In quei sessanta che vedono Simenon rallentare un tantino l’impeto viaggiante – ci torniamo tra poche righe – c’è anche da aggiungere sul taccuino della cose da ricordare che il maturo romanziere nel 1960 è presidente di giuria a Cannes e assegna la Palma d’Oro a La dolce vita di Fellini. Inutile dire che il regista romagnolo non si fa sfuggire l’ammiratore, ricambiato, tanto da investirlo di letterine d’amore, telegrammi, semplici messaggi (in mostra anche questi, come le copertine di Pinter e quelle originali).
Simenon Italia ultimo atto è quello che fa slittare il belga oramai anziano e malato verso la casa editrice Adelphi che inizierà a pubblicare l’imponente materiale letterario rimasto fuori iniziando, ca va sans dire, proprio 40 anni fa, nell’aprile del 1985 con l’inedito Lettera a mia madre. Simenon diventa così romanziere totale, autentico, ineguagliabile proprio sotto l’ala leggendaria di Roberto Calasso. E ad ogni modo per capire la portata della popolarità del nostro bisogna allargare lo sguardo a tutto il Novecento.
Perché ed esempio se dici “cinema” (viaggio numero otto, in mostra) prima di Fellini devi metterci Jean Renoir (padrino del figlio John), ci devi inserire tutto quello che la settima arte (e la televisione!) trae come trasposizioni letterarie fin dal 1932 (La notte dell’incrocio di Renoir) arrivando addirittura fino ad oggi (l’invisibile e osteggiato Il caso Belle Steiner di Benoit Jacquot), con in cima la sagoma “internazionale” di quest’uomo “banale, tipicamente parigino, al tempo stesso discreto e onnipresente nelle indagini che conduce” che è Maigret.
Commissario seriale, sostanzialmente ante litteram, che prende il volto di Cervi sì, ma anche di Jean Gabin e Bruno Cremer, in Italia anche di Sergio Castellitto, in Inghilterra di Charles Laughton, Michael Gambon, Rupert Davies, Rowan Atkinson e Richard Harris, in Russia di Vjaceslav Brovkin e perfino in Giappone con Kinya Aikawa. Otto viaggi di un romanziere ad ogni modo prende le mosse dal “bisogno ossessivo di imporre la propria libertà”, come afferma il figlio John, di un uomo in “perpetuo movimento fisico interiore”, del “non farsi includere in gabbie relazionali, ideologiche, politiche e geografiche”.
Per questo i primi viaggi in mostra a Bologna sono quelli in cui Simenon si sposta ovunque da Liegi a Parigi poi “In Viaggio” tra i canali di Francia, in Africa, in Turchia, in Urss (dove compirà una celebre intervista a Trotsky), in pieno Mediterraneo e per il mondo fino a quella permanenza statunitense sorta di “punto di equilibrio” nel primo dopoguerra.
Ovviamente i continui spostamenti sono testimoniati con foto e documenti originali. Mentre di particolare rilievo, prima del fittizio studiolo dove si sviluppa il metodo Simenon (“do not disturb” sulla porta, lezione universale) e della fittizia cabina del telefono pegno alla contemporaneità museale che va messa sempre in conto, assume un filmato dopo un paio di angoli di mostra. Simenon in bianco e nero enumera quel suo onnivoro disordine di lettore: dieci dodici libri letti a settimana e poi alla rinfusa Jules Verne, Fenimore Cooper, Dumas, Walter Scott, poi i russi, Puskin, Dostoevskij e, dice Simenon, sottolineando con forza “soprattutto Gogol”. Ogni informazione su www.cinetecadibologna.it