A seguito della scossa di terremoto di magnitudo 4.4 registrata questa notte nell’area dei Campi Flegrei, la macchina istituzionale si è messa in moto e tra le prime decisioni, ora come in passato in altre simili situazioni, c’è quella di ‘chiudere le scuole’… Se questa decisione risponde ad una reale esigenza legata al rischio di abitare gli istituti scolastici, si dovrebbe immediatamente aprire un dibattito sul perché gli edifici scolastici (e tanti altri edifici pubblici) non rappresentino un luogo sicuro per le persone che li abitano quotidianamente, ma siano invece considerati dei luoghi pericolosi.
Se i bambini e gli insegnanti non possono andare a scuola, è sottinteso che per loro sia più sicuro rimanere nelle proprie case? È questa una ammissione dei governi locali e nazionali che le strutture pubbliche non sono sicure e a norma? Sebbene sia difficile avere dei numeri certi, diversi studi indicano che in Italia solo il 25% delle case è costruita con tecniche antisismiche. Ci si aspetterebbe quindi che, come previsto dalla normativa, almeno le scuole siano edifici sicuri; più sicuri delle nostre case. Luoghi dove possiamo mandare i nostri figli che li frequentano quotidianamente in sicurezza e dove, ancor più in situazioni di rischio, ci si possa riparare e sentirsi sicuri.
Se consideriamo inoltre che gli eventi sismici non sono prevedibili, e non sempre danno la possibilità come in questo caso di avvertire e quindi chiudere le scuole, ma possono avvenire in qualsiasi momento e quindi anche durante l’orario di lezione, cosa si intende fare per mettere in sicurezza questi edifici? In un periodo caratterizzato da discorsi su come tagliare le spese per l’istruzione e educazione dei nostri figli per aumentare gli investimenti in armi, quali risposte si danno alle famiglie e quali sicurezze ai bambini e ragazzi che ogni giorno frequentano le scuole? Oltre a chiuderle per qualche giorno, bisogna quindi avere il coraggio di dire che le scuole non sono sicure e quindi trovare le risorse per metterle in sicurezza il prima possibile, oppure sono sicure – quindi inutile chiuderle ma anzi aprirle anche oltre il normale orario scolastico per offrire assistenza alle famiglie in difficoltà. Tertium non datur.
Se estendiamo il ragionamento ad altri tipi di rischi naturali (es. alluvioni, frane, mareggiate, ecc.), gli eventi naturali e il cambiamento delle condizioni che noi definiamo “normali” rappresentano, in Italia come e più di altre aree geografiche, la norma e non l’eccezione, con il 94% dei comuni italiani sottoposti a rischi naturali. Questo perché la Terra è viva (se non lo fosse avremmo poche possibilità di sopravvivere) e l’ambiente in cui viviamo è dinamico. Processi come terremoti, eruzioni, frane e alluvioni sono parte integrante e fondamentale del ciclo naturale. In questo scenario, l’unico strumento che abbiamo a disposizione per prevenire il verificarsi di eventi potenzialmente avversi è quello di aumentare le conoscenze del territorio e i suoi fenomeni.
Solo conoscendo il territorio, la sua composizione e variabilità geologica e monitorando attentamente la sua evoluzione è possibile una corretta pianificazione e gestione per proteggere la vita delle persone. Senza una pianificazione e sostegno finanziario e culturale, lavorando nel medio e lungo periodo per dotarsi degli strumenti e delle figure professionali necessarie per monitorare il territorio, i proclami post-evento hanno scarsa efficacia. Se non quella di rispondere, in emergenza, ad evento già avvenuto.