Nei giorni di Capodanno, la scelta della Prefettura di Milano di istituire “zone rosse” in città aveva avuto una certa eco. L’eco è passata, ma la misura no. L’ordinanza, infatti, ha un tempo di vigenza che dura fino al prossimo 31 marzo, e dunque è tuttora in vigore. La misura può occasionare riflessioni importanti sui rischi della nostra democrazia; se ci si mette, beninteso, nella prospettiva di accettare che la nostra democrazia possa conoscere dei rischi.

Forse non siamo ancora usciti del tutto, infatti, da una stagione di eccessiva self-confidence riguardo alle conquiste democratiche, che ha preso avvio nel secondo dopo-guerra. La stessa eccessiva self-confidence che, sempre da allora, ci aveva riguardato quanto alla impossibilità di una nuova guerra sul territorio europeo: impossibilità oggi francamente smentita. Così è per l’impossibilità di una regressione della democrazia verso forme di autocrazia; e speriamo di non essere smentiti anche qui con tanta evidenza.

Più si approfondisce la conoscenza dei sistemi democratici, delle loro pur ben costruite garanzie, dei loro pur sofisticati e attenti meccanismi, più si capisce in realtà quanto deboli essi siano, e quanto sia facile, al di là dell’illusione, farli scivolare in forme di autocrazia. Con passi lenti, inavvertiti, e non necessariamente parte di una regia perversa e occulta, ma che semplicemente anestetizzino rispetto a forme intollerabili di restrizione della libertà, con un fraintendimento delle garanzie in una logica mortifera che oppone pragmatismo a proceduralismo.

Il tutto, sulla base di ragioni che appiano, in fondo, bonariamente condivisibili. Come è per l’esigenza securitaria che fonda l’ordinanza milanese, anche se questo non ne attenua i dubbi sulla legittimità, o almeno le ragioni di perplessità democratica.

Alcune ragioni riguardano la natura dello strumento: la libertà personale e la libertà di circolazione, entrambe tutelate costituzionalmente, possono essere limitate da provvedimenti adottati con legge, e, in alcuni casi, motivati dall’autorità giudiziaria.

Qui siamo invece davanti ad un provvedimento prefettizio, che è un atto accompagnato da ben minori garanzie di quelle del controllo democratico garantito dal procedimento legislativo. Che è un procedimento pubblico, partecipato dalle minoranze, e che peraltro è soggetto allo scrutinio prima del Presidente della Repubblica e poi eventualmente anche della Corte costituzionale.

Altri motivi di perplessità riguardano le categorie dei soggetti destinatari. Si parla di “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti”: o queste condotte sono già reato – e allora non c’è bisogno di aggiungere altro –, o, se non lo sono, la formulazione è di una vaghezza intollerabile laddove si parla di limitazione di diritti fondamentali. E poi – peggio – si parla di soggetti “destinatari di segnalazioni dell’Autorità giudiziaria” per determinati reati. Attenzione: non soggetti condannati, o almeno indagati, no: appena “destinatari di segnalazioni”. Con una grave violazione della presunzione di non colpevolezza.

Sospendiamo per un attimo il giudizio sull’efficacia e sulla validità della misura. Diciamo solo, incidentalmente, che provvedimenti simili innalzano l’allarme sociale, con effetti più criminogeni che deterrenti; e che ci sarebbe da affrontare il tema del fraintendimento del concetto di “sicurezza”, ridotto ad “ordine pubblico”, mentre della “sicurezza sociale” nessuno si occupa più. Ma qui il punto è un altro, e riguarda il pretesto della misura.

Sarebbe sbagliato liquidare sbrigativamente l’esigenza di arginare l’azione di “soggetti molesti e aggressivi, dediti alla commissione di reati e non in regola”. La “percezione di sicurezza dei cittadini” è oggettivamente un tema di cui il potere pubblico deve tener conto. Ma è proprio qui che la china è scivolosa. La domanda di protezione dei cittadini, infatti, riceve una immediata risposta da misure di questo tipo, e, poiché nella gerarchia istintuale di ciascuno l’autoconservazione viene prima della libertà, finiscono per perdere ogni valore le considerazioni sulle garanzie che tali misure infrangono.

È un gioco pericoloso, questo, sintomo di una democrazia ormai in crisi: perché è in crisi una democrazia dove alle garanzie democratiche si preferisce la sicurezza. Una crisi – absit iniuria – di stupidità, perché una volta che tali garanzie sono esizialmente indebolite, esse smettono di operare non solo nei confronti del “nemico” di turno, ma nei confronti di chiunque. Compresi quelli che si son sentiti rassicurati dalle misure di “daspo urbano”.

E se nessuno insinua che dietro a questa china ci sia malafede, o una regia occulta, si deve però almeno riconoscere una certa baldanzosa superficialità. Ma attenzione: di disinvoltura, la democrazia muore.

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