Trump giura e firma subito gli ordini esecutivi. La resistenza al secondo mandato sarà più labile

In una Washington gelida e blindata, Donald Trump s’appresta a insediarsi come 47° presidente degli Stati Uniti e a rientrare alla Casa Bianca, che aveva lasciato quattro anni or sono, sconfitto e bollato dall’ignominia per avere ordito l’attacco alla democrazia del 6 gennaio 2021.
Dopo avere giurato sotto la Rotunda del Congresso, per la prima volta al chiuso dal 1985, Trump intende emanare decine di ordini esecutivi, che riguardano la sospensione del bando di TikTok – l’app è già tornata a funzionare ieri, dopo poche ore di auto-sospensione, un’iniziativa pubblicitaria per sé e per Trump -; l’inizio della deportazione dei migranti senza documenti, cioè illegalmente negli Stati Uniti; la grazia ai sovversivi del 6 gennaio.
Altre materie toccate potranno essere l’applicazione di dazi universali o specifici Paese per Paese e differenziati per tipo di prodotti; l’energia; l’ambiente; una riforma fiscale a vantaggio di aziende e ricchi; l’innalzamento del tetto al debito federale e tagli ai programmi di spesa federali. Misure che, spesso, non possono essere prese con un decreto presidenziale, ma richiedono un iter legislativo più complesso.
Si presta a Trump l’intenzione di mettere buona parte della sua agenda in un unico provvedimento legislativo, che il Congresso potrebbe approvare a maggioranza semplice attuando il processo detto di “reconciliation”. Vedremo se sarà così.
Nonostante programmi rivisti e ridimensionati ‘causa gelo’, dal giuramento al discorso, dalla parata che non sarà lungo Pennsylvania Avenue ai balli che, invece, dovrebbero svolgersi normalmente, Trump non ha rinunciato a un bagno di folla con decine di migliaia di suoi sostenitori ieri sera, sotto la Capital One Arena: solo una parte dei circa 250mila fan che si calcola siano giunti a Washington da tutta l’Unione.
Nell’analisi dei media Usa, il secondo insediamento di Trump alla Casa Bianca è diverso dal primo, perché l’elezione è avvenuta in modo diverso: stavolta, il magnate ha vinto anche il voto popolare, e in modo netto, con oltre due milioni di suffragi di margine e un’affluenza appena inferiore al 64% (contro i circa 2/3 del 2020); e perché l’ottimismo dei suoi sostenitori prevale sulla preoccupazione di chi non l’appoggia, anzi gli è avverso, ma è uscito sconfitto e scoraggiato da Usa 2024.
Washington in sé resta sostanzialmente ostile al nuovo presidente, che, però, forte dell’esperienza del primo mandato, ha messo molto impegno, nella fase di transizione, per individuare ed espellere il cosiddetto ‘deep State’, cioè quanti dentro le istituzioni possono intralciare il suo operato. Così, riferisce il Washington Post, decine di diplomatici di carriera stanno per dimettersi dal Dipartimento di Stato su richiesta dello staff di Trump. Lo stesso accade in altri Dipartimento, il Tesoro, l’Energia, l’Ambiente, la Difesa, la Sicurezza interna; e nelle agenzie d’intelligence. La richiesta di dimissioni, prerogativa di qualsiasi Amministrazione entrante, indica il desiderio d’un rapido cambiamento in linea con le priorità del presidente eletto, che, in politica estera, includono i dazi, la fine della guerra in Ucraina e il consolidamento del cessate-il-fuoco fra Israele e Hamas.
Resta la magistratura, contro cui nel primo mandato s’infransero molte iniziative illegali o incostituzionali dell’Amministrazione Trump. Ma qui Trump ha già agito: nel primo mandato, nominò più giudici di ogni ordine e grado di qualsiasi altro presidente prima di lui; e l’effetto s’è già visto, perché, nel processo elettorale e nel parallelo contesto giudiziario, la Corte Suprema dominata dai conservatori gli è stata di grande aiuto. Quindi, la resistenza al Trump 2 potrebbe essere diversa, ma anche più labile, di quella al Trump 1.
E mentre si prepara ad accogliere un presidente che non vuole, Washington dà l’addio a Joe Biden, che aveva salutato con sollievo quattro anni or sono, ma che se ne va impopolare e poco amato, lasciano una eredità zeppa di contraddizioni”, anche se – sostiene la stampa liberal – “la storia potrebbe essere più generosa con lui” che la cronaca di questi giorni. Biden ha cercato, nelle ultime settimane, di mettere alcuni risultati acquisiti – dai diritti civili all’ambiente all’energia – al riparo dall’iconoclastia di Trump. Ma c’è chi teme che non ci sia riuscito: si registra, dunque, ad esempio, un aumento delle unioni gay, nel timore che Trump o Stati d’osservanza trumpiana ne compromettano la validità e/o il riconoscimento.
Anche i democratici, del resto, fanno la conta di quelli su cui possono contare e dei voltagabbana. Fra i quali si annovera tutto il mondo dell’hi-tech, che, seguendo la stella polare del profitto e dell’opportunismo, è migrato in blocco sotto le tende del vincitore, superando anche vecchie ruggini con il suo ‘gemello digitale’ Elon Musk: da Mark Zuckerberg a Jeff Bezos a Shou Zi Chew, l’amministratore delegato di TikTok, che ha messo su tutta una pantomima per consentire a Trump d’apparire determinante là dove Biden aveva già dato il suo ok al mantenimento della App, aspettando le deliberazioni della nuova Amministrazione.
Preoccupazioni e diffidenze non sono solo a Washington, in un’attesa segnata da speranze e timori, dal Medio Oriente all’Ucraina, dall’Ue alla Cina. Fra i leader ospiti all’insediamento di Trump, Giorgia Meloni è l’unico premier di un Paese Ue: c’è chi vi legge un segnale d’influenza dell’Italia e chi vi trova una conferma del disegno di Trump, che non apprezza il multilateralismo, di dividere i suoi interlocutori, che siano alleati o partner, amici o avversari. Se poi si considera che l’unico altro capo di Stato o di governo presente è l’argentino Javier Milei la compagnia non appare rassicurante.
Il ritorno all’America First in politica estera, un manifesto isolazionista, stride con il ritorno dell’imperialismo americano nei propositi di Trump di ‘annettere’ il Canada come 51° Stato, d’acquisire la Groenlandia e di riprendere il controllo del Canale di Panama: ”E’ la resurrezione dell’energia maschile americana”, una botta di testosterone che scuote l’Unione; “E’ il ritorno al Manifest Destiny” della nazione americana, dice Charlier Kirk, che con il suo gruppo Turning Point ha spinto al voto molti trumpiani di solito riluttanti ad andare alle urne.
L’Ap osserva: “Sminuire l’importanza delle frontiere nazionali e parlare dell’suo della forza contro Paesi alleati membri della Nato segna una presa di distanze stupefacente da decenni di rispetto della sovranità territoriale. E’ una retorica che, per gli analisti, potrebbe incoraggiare i nemici dell’America a pensare che Washington ora accetta l’uso della forza per ridisegnare i confini, come sta avvenendo in Ucraina e come potrebbe avvenire con Taiwan”.
Gli alleati di Trump sostengono che i suoi discorsi muscolari sono parte delle sue complesse tattiche negoziali. A parte il fatto che nel primo mandato i risultati di questo complesse tattiche negoziali non si sono visti, né con la Russia né con la Cina e tanto meno con la Corea del Nord, nonostante tre incontri al Vertice con il dittatore Kim Jong-un, Michael McFaul, ambasciatore a Mosca durante la presidenza Obama, giudica il linguaggio di Trump controproducente per l’interesse nazionale degli Stati Uniti.