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‘Inside Gaza’ e ‘La guerra dei giornalisti’, i podcast raccontano la complessità della Striscia sotto assedio – LA PRIMA PUNTATA

Due operatori umanitari di Cesvi hanno mandato testimonianze dal campo. Anna Maria Selini ha raccolto i tanti casi in cui i cronisti palestinesi sono stati uccisi perché obiettivi dell'esercito israeliano

di Elena Rosselli
LA GUERRA DEI GIORNALISTI - 3/3

LA GUERRA DEI GIORNALISTI - 3/3

“Non c’è una prova che ci permetta di dire che l’esercito israeliano uccide volontariamente i giornalisti a Gaza, ma ci sono decine di casi che dimostrano uccisioni mirate, specie con l’utilizzo di droni”. Anna Maria Selini, già autrice di “Oslo 30. L’illusione della pace”, ha realizzato, sempre con Altreconomia, il podcast “La guerra dei giornalisti”, sei episodi, che in due mesi hanno già superato i 12mila ascolti.

Al 12 dicembre 2024, il sindacato dei giornalisti palestinesi conta 183 giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023, rendendo questi ultimi 14 mesi di operazione militare il periodo più mortale per la categoria almeno negli ultimi 30 anni. “Tutto quello che si muove dentro Gaza è un obiettivo. I giornalisti, gli operatori o i medici sono solo più visibili perché in prima linea – spiega Anna Maria – Ci sono decine di giornalisti che prima hanno ricevuto minacce telefoniche e poi sono stati uccisi”. Un esempio su tutti, il giornalista palestinese di Al Jazeera Ismail Al Ghoul, decapitato il 31 luglio scorso da un drone israeliano. “Ci sono tweet dei capi dell’esercito israeliano che indicavano alcuni giornalisti di Al Jazeera come un pericolo – ricostruisce Selini – Di fatto questi messaggi diventano una taglia sulla loro testa e infatti, poi, questi cronisti vengono uccisi, sempre con la motivazione che o fanno parte in qualche modo di Hamas o addirittura hanno partecipato al 7 ottobre”.

Anche Il 7 gennaio scorso, l’Idf ha effettuato un attacco missilistico su un’auto nel sud di Gaza sulla quale c’erano quattro giornalisti palestinesi. Due di Al Jazeera – Hamza Dahdouh, 27 anni – unico figlio, fino a quel momento, superstite del decano dei giornalisti palestinesi Wael Al Dahdouh – e il suo operatore sono stati uccisi insieme all’autista. Il giorno dopo L’Idf ha dichiarato che erano “terroristi”, ma il Washington Post ha pubblicato un’inchiesta video che ha smentito questa accusa. Di certo, la caccia ai giornalisti non è cominciata il 7 ottobre, si è fatta solo più pervasiva. E non riguarda solo Gaza, ma anche i Territori occupati. “C’è un precedente anche italiano, il fotoreporter Raffaele Ciriello, ucciso da un carro armato israeliano, a Ramallah, il 13 marzo 2002 – racconta la giornalista – Nessun militare ha mai pagato. Così come nessuno ha pagato per l’uccisione l’11 maggio 2022 di un’altra giornalista di Al Jazeera, famosissima in Medio Oriente, Shereen Abu Akleh”. Per Selini il suo caso è una linea rossa: “Nonostante un cecchino israeliano le abbia sparato tre raffiche di colpi al collo, nonostante Sheeren indossasse elmetto e giubbotto con la scritta ‘Press’, nonostante avesse anche la cittadinanza americana, la comunità internazionale non ha reagito con sufficiente forza”. Neppure dopo che le Nazioni Unite hanno chiuso l’inchiesta dichiarando che ad ammazzarla erano state le forze di sicurezza israeliane: “Questo è stato un segnale molto chiaro per il governo israeliano, un sostanziale via libera”.

Nel podcast Anna Maria Selini parla diffusamente di Sheeren attraverso le testimonianze del fratello, degli amici e dei colleghi, ma intervista anche giornalisti israeliani, come Haggai Matar, direttore di +972 – l’unico magazine in Israele, che avvalendosi di cronisti sia arabi che israeliani “ha fatto le domande che gli altri non fanno” ottenendo scoop mondiali come quello su ‘Lavender’, l’intelligenza artificiale usata per individuare gli obiettivi a Gaza – ma anche Jeremy Sharon, giornalista del Times of Israel, che nonostante critichi i coloni violenti e riconosca l’impunità di cui godono, preferisce non rispondere alle domande di Anna Maria sui giornalisti palestinesi uccisi a Gaza: “Non sono abbastanza informato”, è la sua giustificazione. Oltre 4000 giornalisti internazionali hanno fatto richiesta di entrare nella Striscia, un permesso che non è mai stato accordato, se non ad alcuni, a patto che entrassero con l’esercito come embedded: “Se Israele si definisce una democrazia, deve accettare che la stampa è libera, anche e soprattutto in guerra – conclude Selini – Se poi, continua a delegittimare i giornalisti locali perché ‘parziali’, ‘non professionali’ o persino ‘contigui ad Hamas’, allora deve permettere a quelli internazionali di entrare e verificare quello che avviene sul campo. Fare questo significherebbe non avere più alibi”.

Per segnalarmi altri podcast di cui vorreste sapere di più, scrivetemi a e.rosselli@ilfattoquotidiano.it

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