Che la violenza di genere sia diffusa online e che il confine con l’offline sia facilmente valicabile, è un fatto noto che, tuttavia, non chiama sempre in causa le responsabilità delle aziende proprietarie delle piattaforme social. In questo post l’azienda è Meta e la storia riguarda lo Yemen: uno stato piagato dalla guerra, nel quale le donne sono sottoposte da tempo immemore a discriminazioni e violenze sistematiche.
L’Organizzazione yemenita per lo sviluppo e lo scambio di tecnologia ha registrato tra l’inizio del 2023 e aprile del 2024 115 casi di ricatto online, nella maggior parte dei casi contro donne. Sanad, un gruppo locale per i diritti digitali, ha segnalato almeno quattro casi al giorno di ricatti online, nel 95 per cento dei casi contro donne. Da questi dati è nata una ricerca autonoma di Amnesty International, che ha esaminato i casi di sette donne che hanno subito violenza di genere online su Facebook tra il 2019 e il 2023 nelle province di Aden, Ta’iz e Sana’a. Queste donne hanno subito ricatti e minacce che hanno riguardato la diffusione non consensuale di immagini sensibili, in violazione del loro diritto alla privacy. A prenderle di mira sono stati conoscenti, amici, compagni di classe, fidanzati ed ex.
La minaccia era sempre la stessa: condividere su Facebook loro foto a volto scoperto (dunque, senza hijab o niqab) o di particolari del loro corpo. Sono state persino realizzate foto false in cui le donne erano in compagnia di uomini mai conosciuti. Per evitare la pubblicazione, le donne avrebbero dovuto pagare o fare sesso coi ricattatori.
“Quel tipo ha creato una pagina Facebook con mie foto, vere e finte. Da quel momento, la mia vita è andata distrutta: le relazioni con la famiglia di mio marito, con la mia e con gli amici, la mia carriera, tutto. Non sono più andata al lavoro”, ha raccontato una delle donne, che per 11 anni era stata proprietaria di un salone di bellezza.
Nessuna di loro sapeva come presentare un reclamo a Facebook per chiedere la rimozione di quei contenuti. Nella maggior parte dei casi, non hanno cercato aiuto presso i familiari, per timore delle conseguenze. Tutte si sono sentite isolate, piene di vergogna, depresse e con pensieri suicidi. Una di loro ha anche provato a togliersi la vita.
Sei delle sette donne si sono rivolte alla polizia, nonostante il rischio di essere denigrate e di sentirsi chiedere “bustarelle” da parte degli agenti. Un magistrato ha accusato una di loro – tutto il mondo è paese! – di essersela andata a cercare. Si è arrivati a processo in quattro casi e, di questi, solo uno è terminato con una condanna a un mero risarcimento in favore della parte lesa. Sanad ha aiutato le donne a rimuovere i contenuti ma, come ha spiegato il fondatore Fahmi al-Baheth, ci è voluto molto, troppo tempo prima che Meta comprendesse quali conseguenze comporta nello Yemen (e anche altrove) la pubblicazione di immagini a volto scoperto.
Intorno alla metà di agosto Amnesty International ha scritto alle varie autorità che si dividono il potere in Yemen e a Meta, chiedendo di commentare le conclusioni della sua ricerca. Il 29 agosto Meta ha replicato affermando di non essere in grado di rispondere nel merito entro la scadenza fissata, limitandosi a inviare i link alle policy aziendali. Dalle autorità, nessuna risposta.
Da qui l’appello di Amnesty International a Meta affinché migliori la consapevolezza dei suoi utenti su temi come la privacy e la sicurezza personale e assicuri che i meccanismi di reclamo siano accessibili e tengano conto delle culture degli Stati in cui l’azienda opera.