Suzuki Shiro è inamovibile, e rimane fermo sulla decisione di non invitare l’ambasciatore d’Israele Gilad Cohen, alla cerimonia di domani per il settantanovesimo anniversario del bombardamento atomico su Nagasaki, la città di cui è sindaco. Riferendosi ai sentimenti dei suoi cittadini, i primi di giugno il sindaco aveva inviato una lettera al diplomatico israeliano, chiedendo un immediato cessate il fuoco su Gaza, aggiungendo: “Se saremo sicuri di poter svolgere una cerimonia tranquilla e senza incidenti, riconsidereremo l’invito a Israele”. Così non è stato.
Il primo cittadino della città sulla costa sud-occidentale del Kyushu, però, accoglierà il rappresentante diplomatico della Palestina. Una presa di posizione un bel po’ scomoda, ma di raro coraggio, che sta generando tensioni, tra cui le defezioni una dopo l’altra da parte degli Ambasciatori occidentali di stanza a Tōkyō. Il sindaco nipponico sostiene di aver escluso Israele per “riuscire a svolgere la cerimonia senza problemi, in un’atmosfera solenne”. I primi a dirsi contrari alla scelta di Nagasaki sono stati l’Ambasciatrice britannica Julia Longbottom, e lo statunitense Rahm Emanuel, che non saranno presenti sul luogo dove è stata gettata la seconda bomba atomica della storia, ma parteciperanno a una cerimonia che si terrà nella capitale. Per questi due diplomatici, la giornata senza la partecipazione di Israele assume un caratterizzazione politicizzata e per questa ragione “inappropriata”.
La reazione occidentale si era manifestata già il 25 luglio, con una lettera inviata da Italia, Germania, Francia, Canada e Unione Europea al primo cittadino di Nagasaki, in cui si annunciava il disappunto per il mancato invito a Israele e si confermava la non partecipazione all’evento che vorrebbe essere pacifico, degli ambasciatori dei Paesi del G7. Dunque l’anniversario le cui intenzioni da quasi ottant’anni sono quelle di pregare per le vittime di un atto feroce, durante il quale invocare il disarmo totale e la pace nel mondo, si è trasformato in un vero pasticcio diplomatico.
Anche perché il contrario è invece accaduto il 6 agosto a Hiroshima, dove per l’annuale cerimonia al Memoriale della Pace il sindaco Matsui Kazumi ha accolto come sempre l’Ambasciatore di Israele perché “in linea con gli anni precedenti”, e dove tutti i diplomatici occidentali hanno tranquillamente partecipato. Ma a Hiroshima è mancata la rappresentanza palestinese, e per il terzo anno consecutivo quelle di Russia e Bielorussia (come avverrà per le due ultime nazioni anche domani a Nagasaki).
Doppio standard di comportamento? Chi ha ragione, chi torto? Complicato rispondere in maniera netta. La posizione del governo centrale di Tōkyō sulla scelta di Nagasaki è quella di lavarsene le mani, sostenendo che spetta alla città protagonista, decidere chi invitare e chi no. Ma che ne pensano al proposito i superstiti di quel 9 agosto del 1945, i pochi hibakusha ancora in vita, e i loro famigliari? Sul quotidiano Asahi Shimbun, il presidente dell’Associazione degli Hibakusha di Nagasaki, l’81enne Tomonaga Masao, afferma: “Il nostro sindaco era preoccupato dell’opposizione dei cittadini per la possibilità di incidenti se fosse stato invitato Israele, purtroppo le sue intenzioni sono state mal interpretate”.
Il presidente del Consiglio dei Superstiti della Bomba Atomica della città, Tanaka Shigemitsu di 83 anni, si spinge oltre sostenendo: “Per quanto sia spiacevole che un anniversario in cui pregare per la pace venga influenzato da questioni politiche, riteniamo che non sia giusto invitare un Paese impegnato in una guerra e che allude a un possibile utilizzo delle armi nucleari. .Anche l’’85enne Harada Hiroshi, hibakusha di Hiroshima ed ex direttore del Museo della Pace della sua città, ha qualcosa da aggiungere al proposito: “Penso che la devastazione causata dalle due bombe atomiche non sia stata ancora accuratamente compresa dalle persone, specialmente negli Stati Uniti. Tutti i paesi che possiedono armi nucleari, dovrebbero partecipare alla cerimonia e riflettere sul suo significato”.