Se a qualcuno serve la Giornata della Memoria non è al popolo ebraico – che ha cominciato a seguire percorsi propri di memoria, ad esempio con la giornata di Yom HaShoah, nel nostro maggio –, ma a noi che ebrei non siamo. E serve come esercizio di riflessione inteso nel senso etimologico del termine: di guardare se stessi nella Shoah, alla luce della Shoah. D’altra parte, è questo il senso proprio anche della preghiera ebraica, per la quale si impiega sempre un verbo riflessivo – hitPaLleL –, come ad indicare un auto-giudizio, un guardare se stessi alla luce del testo che si prega.

Se si compie questo sforzo, si scopre che la Shoah è una ferita che ci portiamo addosso anche noi non ebrei. Senza voler fare paragoni arditi, beninteso: la nostra è una ferita che è infinitamente diversa da quella che si porta addosso il popolo d’Israele, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Ma resta una ferita anche per noi. E ogni volta che ne facciamo memoria, in senso riflessivo, come in una preghiera, scopriamo che ce la portiamo ancora e sempre addosso. Come Giacobbe, in quella misteriosa notte biblica in cui lottò con Qualcuno “fino allo spuntare dell’aurora”. Vinse, ma ne esce con una slogatura all’anca che lo renderà zoppo per tutta la vita. Camminerà sempre e ancora con il ricordo di quel colpo addosso.

Una preghiera della liturgia ebraica, al mattino, prega così: “Tu sei fonte di benedizione, nostro Dio, che formò l’uomo con saggezza, e creò in lui cavità e cavità, vuoti e vuoti”. Anche i vuoti, anche le cavità, anche le anche slogate, anche la ferita che ci portiamo addosso dalla Shoah è fonte di benedizione, se è memoria di cosa siamo stati, e dunque di cosa siamo.

Prima di quella notte a lottare senza sosta, Giacobbe aveva rubato la benedizione del padre. Spettava al fratello che era nato appena pochi istanti prima di lui, Esaù, ma Giacobbe inganna il padre ormai cieco, Isacco, e acquista lui i diritti del primo. È quella che Recalcati, ne La legge della parola (Einaudi, 2022), chiama “la passione narcisistica per il proprio nome”; volontà di affermazione, volontà di primogenitura – “prima io”. È contro questo fantasma, questa parte di se stesso, che Giacobbe lotta a mani nude tutta la notte. “La lotta di Giacobbe indica propriamente questo dissidio, lo scavo nei tumulti del soggetto, la riduzione della propria passione narcisistica”.
Alla fine di quella lotte, Giacobbe chiederà una nuova benedizione al suo avversario – “Non ti lascerò andare finché tu non mi abbia benedetto”. E stavolta non è un inganno, non sta fingendo di essere un altro. Stavolta è lui, con la sua anca slogata, con la sua ferita, nella sua perturbante nudità. Da ora innanzi, il suo zoppicare gli ricorderà sempre e ancora il dramma in cui il suo narcisismo – “prima io” – lo aveva trascinato contro il fratello, contro il padre, contro se stesso.

La ferita, la cavità, il vuoto, che ci scopriamo addosso mentre ci guardiamo alla luce della memoria della Shoah può diventare benedizione solo se ricorda anche a noi il dramma in cui il nostro narcisismo – “prima io” – ci ha trascinati e può sempre trascinarci contro il fratello, contro il padre, contro noi stessi.

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