di Davide Gatto

Uno dei pericoli più insidiosi viene alla democrazia dalla sua retorica di utopia realizzata: il potere appartiene davvero al popolo, che sceglie chi pro tempore sarà incaricato di governare la cosa pubblica, il riconoscimento di diritti umani inviolabili e l’assoggettamento di ciascuno alle medesime leggi garantisce l’uguaglianza effettiva dei cittadini, l’informazione e il pensiero sono liberi.

Questa autocelebrazione – difficile dire quanto spontanea e quanto invece indotta a scopo manipolatorio – è insidiosa perché trasforma la vita vera in un fermo immagine gratificante, come fosse la bianca distesa di un fiume ghiacciato che i pattinatori si godono beati a qualche centimetro dalle acque che sotto scorrono nere e vorticose.

Ripetere fino all’autoconvincimento e al conseguente immobilismo compiaciuto quanto è bello e quanto è giusto l’ordine politico in cui viviamo è come una specie di liturgia apotropaica che trova la sua manifestazione più evidente nelle giornate istituzionali di commemorazione civile, quando per esempio il ricordo dell’Italia finalmente unita nasconde la realtà dei divari territoriali, o quando le feste per la Liberazione e per la costituzione del nostro Paese in Repubblica oscurano per un giorno i rigurgiti di fascismo e le nostalgie dell’uomo solo al comando, o ancora quando la memoria del genocidio perpetrato ai danni degli ebrei cancella dalla vista i tanti genocidi che oggi sotto i nostri occhi vengono tentati, quando non scientemente perseguiti.

Il pericolo di questa democrazia-simulacro che impedisce di vivere – problematicamente, certo, ma onestamente e responsabilmente – le contraddizioni del reale può essere scongiurato efficacemente solo in quei frangenti storici in cui il reale brutalmente fessura il rivestimento del simulacro ed erompe alla vista: solo quando il ghiaccio in qualche punto cede e il pattinatore vede i neri mulinelli della corrente.

Oggi siamo a ridosso di una di queste celebrazioni rituali – il Giorno della Memoria, il 27 gennaio – e abbiamo l’occasione storica di osservare e condannare le dinamiche genocidarie non attraverso il diaframma rassicurante del tempo intercorso – è già stato, purché non accada mai più -, ma in modo diretto, seguendo da vicino le notizie drammatiche che da tre mesi a questa parte ci giungono dalla Striscia di Gaza. Il tema è delicato e già immagino la levata di scudi, perché bisogna riconoscere – come accennavo sopra – che la retorica autocelebrativa che sostanzia le ricorrenze istituzionali trasforma la memoria in mitologia, e i miti, oltre a consacrare una verità che è sempre in qualche modo di parte, si accompagnano a tabù che li rendono indiscutibili: chi si sognerebbe di affermare che l’Italia non è libera, nella controluce della Festa della Liberazione, o che il popolo ebraico dell’attuale Stato di Israele non è più vittima, ma forse artefice di genocidio, dopo che le celebrazioni del 27 gennaio hanno radicato nel nostro immaginario l’identificazione dell’ebreo con il perseguitato?

Oggi però che le immagini e le notizie da Gaza che viaggiano sulla Rete travolgono come un fiume in piena le fragili barriere della reticenza e della propaganda dei nostri media, oggi che il Sudafrica di Nelson Mandela e dell’emancipazione dall’apartheid ha depositato presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aja l’accusa di genocidio contro Israele, l’incantesimo è finalmente rotto e noi non abbiamo più scuse: nessuno di noi, né privati cittadini, né istituzioni, né mondo dell’informazione.
Sarebbe un indizio decisivo che i valori umani e civili depositati in tante carte e convenzioni nazionali e internazionali sono in realtà uno strumento demagogico nelle mani del pifferaio di turno se il prossimo 27 gennaio i politici non menzionassero nelle loro dichiarazioni ufficiali la strage degli innocenti che si sta consumando a Gaza accanto a quella che subirono tanti bambini ebrei durante la Shoah, così come lo sarebbe se la programmazione televisiva non prevedesse per esempio uno dei film-documentario della cineasta tedesca Monica Maurer sulla vita nella Palestina occupata, oltre a La vita è bella o a Schindler’s list.

Ma è soprattutto nelle scuole, dove la posta in gioco è la credibilità dei valori trasmessi e la tenuta dell’intero edificio democratico di domani, che i docenti sono chiamati a unire nella comune lotta contro ogni forma di persecuzione e di violazione dei diritti umani fondamentali ciò che tanta politica cinica e tanta cattiva informazione si affannano a tenere separato.

Ben vengano dunque, accanto alla lettura ordinaria di Anna Frank, di Elie Wiesel e di Primo Levi, i libri di autori, palestinesi e non, che testimoniano la tragedia di questo popolo, da Il libro della scomparsa di Ibtisam Azem alle opere di graphic journalism di Joe Sacco (Palestina) e di Guy Delisle (Cronache di Gerusalemme); si dia spazio ad integrazione dei capitoli dei libri di testo sul genocidio ebraico, anche ai contributi dei “Nuovi storici” di Israele, su tutti Ilan Pappé con il suo La pulizia etnica della Palestina, che documentano riccamente il progetto e la pratica sionista di espulsione forzata dei palestinesi dalle loro case e dai loro villaggi già prima della nascita dello Stato di Israele nel 1948; si colga l’occasione per educare i cittadini di domani alla complessità, leggendo nel caso insieme al docente di inglese qualche editoriale molto autocritico del quotidiano israeliano Haaretz o navigando nel sito dell’associazione di ex soldati israeliani Breaking the Silence, significativamente intitolata al proposito di “rompere il silenzio […] sulla realtà della vita di ogni giorno nei Territori Occupati”.

Vuoi per pigrizia, vuoi per ingenuità, per anni abbiamo celebrato il 27 gennaio guardando il dito dell’evento storico specifico – la Shoah – invece che la luna del diritto inviolabile di ogni uomo alla vita e alla libertà. Ora che la Storia chiama con la brutalità che le è abituale, ciascuno di noi ha il dovere di distogliere lo sguardo dal dito e di fissarlo sulla luna: in questa giornata noi ricordiamo il genocidio degli ebrei non solo perché un simile evento non si ripeta più ai loro danni, ma perché non si ripeta nulla di analogo ai danni di qualsiasi popolo della Terra, compreso quello palestinese.

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