Se oggi parlate con un giovane operaio di “scala mobile”, inizialmente penserà che vi stiate riferendo all’accesso di un grande centro commerciale. I più anziani invece ricordano con rabbia che la scala mobile era un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari, che li rivalutava automaticamente rispetto all’aumento dei prezzi. E molti sanno che la scala mobile fu colpita per la prima volta dal governo Craxi nel 1984 e definitivamente abolita dal governo Amato nel 1992.

Un economista mainstream e i governatori della Banca d’Italia vi ripeteranno anche oggi che abolire la scala mobile fu una scelta giusta, perché così si interruppe la spirale prezzi salari. Ovviamente Confindustria farà eco a queste parole, che per puro caso coincidono con i propri interessi di classe. E il mondo politico liberal democratico e conservatore, cioè lo stesso che oggi appoggia il genocidio a Gaza, accuserebbe sicuramente di ideologico vetero-comunismo chi oggi avesse la sfrontatezza di riproporre la scala mobile. Eppure i dati ci dicono che il salari italiani sono sprofondati in basso, con il risultato peggiore tra i tutti i paesi più sviluppati, negli ultimi trent’anni proprio a partire dall’abolizione della scala mobile.

Peraltro in quest’ultimo anno e mezzo la Banca Centrale Europea ha applicato una rigorosa scala mobile ai propri tassi d’interesse. Che sono stati rivalutati ogni tre mesi seguendo l’andamento dell’inflazione, fino alla pausa di questi giorni dovuta al forte rallentamento degli indici di aumento dei prezzi, con una recessione economica sempre più pesante. Insomma i profitti delle banche sono stati indicizzati automaticamente, i salari no.

Naturalmente, chi avanzasse il dubbio che questa sia la pura difesa degli interessi dei più ricchi riceverebbe le sdegnate risposte dei palazzi della politica e dell’economia: che diamine i guadagni delle banche rappresentano un interesse generale, i salari dei lavoratori no. Ora questa quarantennale propaganda liberista trova una prima smentita proprio nel paese guida del capitalismo occidentale, gli Stati Uniti.

I lavoratori di General Motors, Ford e Stellantis, dopo mesi di durissimi scioperi, hanno conquistato il nuovo contratto. È vero che non tutti gli obiettivi della piattaforma sono stati raggiunti, in particolare sulla riduzione d’orario, ma il risultato è comunque clamoroso. Oltre ad aumenti salariali tra il 25 e il 30%, come 600 euro al mese in più per un salario italiano, e al superamento dei contratti precari, i lavoratori hanno ottenuto il ripristino della loro scala mobile. Che una volta c’era anche negli Usa , si chiamava Cola ed era stata abolita negli anni degli accordi sindacali in perdita.

Ora tutti dirigenti dell’Uaw, il sindacato dell’auto, firmatari di quegli accordi sono stati cacciati, una nuova generazione di militanti con una diversa linea politica ne ha preso il posto, e la scala mobile è stata riconquistata.

Certo questo accordo gode delle particolari condizioni produttive del settore negli Stati Uniti, diverse da quelle che ci sono da noi. Eppure il messaggio che manda è universale e non solo perché così hanno dichiarato i dirigenti della Uaw: il nostro è un primo passo in una ripresa generale di rivendicazioni operaie. Questo accordo è importante perché è una picconata alla restaurazione liberista nelle imprese e nella società. Un accordo degli anni Settanta, direbbero con orrore tutti coloro che hanno fatto della sconfitta operaia la propria fortuna.

Un accordo che ha rotto il vincolo che schiacciava i salari sotto tutte le compatibilità d’impresa, nel nome della produttività e della redditività, e che ridà dignità autonoma alle retribuzioni. Un accordo conseguito con lotte e picchetti durissimi, con il blocco a scacchiera della produzione, con la solidarietà materiale dei camionisti e di tante altre categorie di lavoratori, che a loro volta ora ci proveranno. Insomma un accordo frutto della lotta di classe dal basso, dopo decenni di vittorie dei padroni con la lotta di classe dall’alto.

Un segno di cambiamento profondo che non è solo della fabbrica, ma nelle spinte di fondo della società, che non ne può più di vivere secondo i modi e tempi prescritti da top manager e banchieri. Ed è perché si è sentito questo vento nuovo che sia Biden che Trump si sono schierati con i lavoratori, contro aziende che li finanziano entrambi.

In Italia abbiamo un quadro politico ancora dominato da Confindustria e imprese e le lotte rivendicative radicali per ora ci sono solo in alcuni settori della logistica. La ritirata operaia non è ancora finita da noi, anche perché i grandi sindacati confederali da anni firmano tutto. Tuttavia segnali di ripresa cominciano ad esserci, ad esempio il crescente e sacrosanto rifiuto dei lavori faticosi con paghe da fame. La stessa vicenda del salario minimo, se da un lato ha mostrato tutta l’ottusità reazionaria della classe imprenditoriale e della destra liberista, ha reso evidente che sull’aumento delle retribuzioni, alla faccia dei lamenti delle imprese, c’è un consenso crescente.

Dopo la vittoria degli operai americani dell’auto non deve essere più tabù da noi proporre il ripristino della scala mobile e rivendicare forti aumenti salariali. E naturalmente pretendere il rovesciamento della passività e della subalternità sindacale. La redistribuzione della ricchezza si fa così, il resto sono le chiacchiere e gli imbrogli che per trent’anni hanno accompagnato lo sprofondare dei salari.

I soldi ci sono, sono in poche mani egoiste, bisogna andare a prenderli. Lo slogan della vertenza degli operai americani dell’auto deve diventare anche nostro.

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