di Riccardo Bellardini

Sì, a volte lo penso, è più forte di me. Potrebbe definirsi come una protesta rabbiosa, contro la mia stessa razza. Indubbiamente un’esagerazione. Ma perdonate, di fronte a tanto orrore insensato, nella mia testa riecheggia questo estremo pensiero: noi umani meriteremmo di estinguerci. Così, d’improvviso.

Provate ad immaginarla, la Terra senza di noi. Rimarrebbero tutti gli altri splendidi animali, che non hanno avuto in dono la capacità di mettere in discussione la realtà, a vivere sul pianeta, a prendersi cura di esso. Loro che sanno dare grande amore, e che sanno essere in alcuni casi anche violenti, ma solo per esigenze di sopravvivenza. Esseri a cui la natura ha regalato un intelletto basico, non estremamente sviluppato come il nostro. Ma loro, questa nostra grande casa, saprebbero trattarla meglio. Eppure quanto li disprezziamo, gli altri animali. Sì, gli altri. Perché noi cosa saremmo, se non animali? Li chiamiamo in causa quando c’è da commentare un atto di violenza inaudito, sconvolgente, da parte dei nostri simili. Forse lo facciamo per deresponsabilizzarci?

Emblematiche le dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano dopo lo scoppio dell’ennesimo conflitto mediorientale: “Combattiamo contro degli animali umani, e agiamo di conseguenza.” Quanto superficiale e ingeneroso disprezzo. Come quando solitamente, di un aggressore violento si dice, come fosse un automatismo: “è una bestia, un animale”, o come quando in riferimento ad un gruppo che pesta a sangue una persona indifesa o stupra una ragazza, si parla senza tentennamenti di “branco”. Dobbiamo proprio tirarle in ballo, le altre creature innocenti, per trovare una giustificazione alle nostre malefatte, per sentirci più tranquilli, più rilassati.

Oppure, altra strategia tipicamente umana, è quella di appigliarsi ai problemi di salute mentale. L’aggressore violento era malato, un matto da rinchiudere, e nessuno è riuscito ad accorgersene. Di quanti assassini sentiamo dire, nelle interviste televisive: “Non era più in sé”? E dov’era? Verrebbe da chiedersi.

Come sviamo di fronte al male. Vogliamo alienarlo da noi. Per questo, pure la guerra, in qualche modo dobbiamo giustificarla. Ci ingegniamo per rintracciare tracce di comprensibilità nell’abominio. Hamas, in una razzia ai confini con la striscia di Gaza, ha ucciso bambini e neonati senza pietà. Risponderà Israele, aspettiamoci altre grosse atrocità. Risponderanno di nuovo i palestinesi guidati dagli estremisti, altri orrori, e poi si ripartirà, verso l’infinito e oltre.

Le rivendicazioni e le bandiere, di fronte a queste mattanze, hanno ancora senso? Quanta voglia spasmodica abbiamo di prendere parte, di fare i tifosi. Una voglia indotta in molti casi dai mass media. I conflitti vengono raccontati in modo parziale e si induce l’ascoltatore, inconsciamente, a schierarsi dalla famosa “parte giusta della storia”. Ma una storia, condita da guerre e barbarie, di giusto, non si sa cos’abbia. Quanti paragoni si fanno nel festival dell’ipocrisia, Hamas come l’Isis, Hamas come i nazisti.

E ancora prima, la Russia che invade l’Ucraina, come Hitler che invade la Polonia. Le analogie cercate, a volte inventate, in un tripudio di sensazionalismo. Lo spettro della guerra finale, evocato a più riprese, quasi a desiderarla, questa entusiasmante resa dei conti. Ma quando ci decideremo a vivere il nostro tempo? A prendere atto dei nostri gravi difetti, senza negarli? Quando ci decideremo soprattutto ad alzare la voce per chiedere la pace? Non la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento, solo la pace!

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