I posti a rischio sono almeno 20mila su 120mila, uno su sei. Una stima prudenziale secondo i sindacati e che riguarda solo i dipendenti diretti. Quello delle telecomunicazioni è un settore in tumulto, in perenne trasformazione. Il comparto italiano paga la forte miopia dei governi che, uno dopo l’altro, non hanno mai saputo gestirlo con competenza e lungimiranza. L’ex monopolista Telecom è stato via via depauperato e si avvicina ad un punto di non ritorno, la concorrenza sfrenata spinge ad un esasperato ricorso al massimo ribasso. Al contempo però, le autorità pubbliche pretendono investimenti. Prima o poi la corda rischia di spezzarsi. I primi a farne le spese, tanto per cambiare, sono i lavoratori. E per questo il 6 giugno è stato indetto uno sciopero unitario del settore.

“Quello delle tlc italiane è un settore che da 12 anni perde un miliardo all’anno di ricavi“, dice a Ilfattoquotidiano.it Riccardo Saccone, della Slc Cigl. “La privatizzazione di Tim, che risale ormai ad oltre 25 anni fa, si è rivelata un disastro. I dipendenti sono scesi da 130mila a 40mila e la capitalizzazione è scesa ormai in prossimità dei 5 miliardi di euro, strutture societarie e di governance particolarmente complicate hanno paralizzato le scelte strategiche del gruppo e ora siamo arrivati ad un punto in cui si rischia davvero“. Già, la privatizzazione Tim… non esattamente una medaglia al valore dell’imprenditoria italiana. Gli Agnelli la rifiutarono (salvo entrare con una micro partecipazione) perché ritenevano il settore della telefonia fosse poco promettente. Poi arrivò Marco Tronchetti Provera e la sua maxi operazione di leveraged buyout. In parole semplici Tronchetti Provera di soldi suoi non mise quasi niente, l’acquisizione fu finanziata facendo un debito monstre che fu poi posto a carico della stessa Tim. Attraverso una catena di partecipazioni che si snodava attraverso sette società il manager milanese riusciva comunque a controllare la società. Naturalmente però con ambiti di manovra ristretti. Da allora il debito è rimasta la palla al piede da cui Tim non è più riuscita a liberarsi che l’ha costretta a vendere asset depauperando via via la società. Ora il gruppo è di nuovo in una fase di stallo, stretta tra le esigenze dei soci francesi di Vivendi e quelle degli altri azionisti, incluso il governo italiano, presente nell’azionariato attraverso Cassa depositi e prestiti.

GLI ESUBERI NEL SETTORE – “Altri paesi hanno a loro volta privatizzato, continua Saccone, assicurandosi però di mantenere un campione nazionale, come nel caso della francese Orange, l’ex France Telecom o la tedesca Deutsche Telekom. Si tratta di gruppi integrati (ossia che uniscono la parte infrastrutturale a quella dei servizi) che fanno da guida sul mercato e sono in grado di competere sui mercati internazionali. In Italia invece i governi sono stati completamente assenti e continuano ad esserlo. Per questo scioperiamo”. Vodafone Italia ha in corso trattative per 1.300 esuberi tra i dipendenti italiani. British Telecom, che in Italia ha una presenza modesta e 500 dipendenti, vuole ridurre l’organico di 100 unità. Wind 3 procede con lo scorporo della rete che passerà sotto il controllo del fondo che già controlla Ericsson. Resteranno 4000 dipendenti del settore servizi che andranno però a competere con soggetti più snelli come Iliad, che in Italia impiega un migliaio di persone. Uno squilibrio che non lascia presagire grandi cose. L’Italia è un caso limite in uno scenario europeo che già si distingue nettamente da quello americano. “Negli Stati Uniti ci sono 3 o 4 grandi operatori, in Europa sono centinaia”, spiega a Ilfattoquotidano.it Francesco Vatalaro, ordinario di telecomunicazioni alla facoltà di Ingegneria dell’Università Roma Tor Vergata. “La concorrenza è certo vibrante ma lo è così tanto che finisce per impoverire il settore. Gli operatori statunitensi sono più solidi”. Nel breve periodo questo va a beneficio dei clienti che godono di tariffe più basse, in particolare in Italia dove sono tra le meno costose in assoluto, ma a lungo termine può portare guai. “La situazione europea discende anche dall’impostazione della Commissione Ue, del tutto focalizzata sulla tutela del consumatore, molto più che negli Stati Uniti”.

LA VISIONE (MIOPE) DELLA COMPETIZIONE – Ad introdurre questo approccio fu, negli anni ’90, l’allora commissario europeo al mercato interno Mario Monti. Come spiegò all’epoca “l’obiettivo della politica sulla concorrenza, in tutti i suoi aspetti, è la protezione del consumatore mantenendo un elevato livello di competizione in tutto il mercato unico”. Cosa c’è di male in questo? In fondo in questo modo il costo delle comunicazioni scende. In realtà questo approccio che è apparentemente virtuoso nasconde molte insidie. Tenere conto solo e soltanto del consumatore significa disinteressarsi di tutti gli altri aspetti, dalle ricadute occupazionali e sociali a quelle di politica industriale. Si rinuncia insomma a qualsiasi ruolo proattivo nell’indirizzare e gestire ogni tipo di processo industriale, delegando tutto al mercato che, se non controllato, diventa però spesso distruttivo come il caso delle tlc dimostra e come ha ben ricordato l’esperta di concorrenza Michelle Meagher nel suo Competition is killing us.

IL RUOLO DEL PUBBLICO – A fronte di questo scenario, continua Vatalaro, “c’è una continua ingerenza dei governi che, nonostante ricavi e profitti in calo, pretendono e spingono per nuovi investimenti. Questi però dovrebbero andare di pari passo con la floridità di un settore, altrimenti si generano tensioni che alla lunga rischiano di “rompere” il comparto”. La situazione degli operatori italiani è aggravata dal fatto che nel corso degli anni “l’atteggiamento delle autorità pubblica è stato isterico e poco serio. Germania, Francia Spagna e Olanda hanno gestito il processo di privatizzazione ciascuno a suo modo ma tutti con maggior consapevolezza e serietà“. La necessità di comprimere perennemente i costi genera anche situazioni pericolose. “Soprattutto negli appalti. spiega Saccone, si assiste ad una progressiva erosione di diritti, salari e sicurezza. Il ricorso spasmodico al massimo ribasso finisce per allontanare aziende che operano nel rispetto delle regole, i capitali non si accentuano più in un ambito in cui la redditività è inesistente. Questo lascia spazio a soggetti non sempre limpidissimi, per intenderci, alcuni fornitori di servizi esterni hanno interdittive anti mafia“.

Lo scorso 26 maggio a scioperare sono stati proprio i dipendenti delle ditte appaltatrici. “Uno sciopero e una mobilitazione – hanno detto il segretario generale della Fim Roberto Benaglia e il segretario nazionale Valerio D’Alò -, che arriva dopo le mancate risposte da parte del governo alla richiesta di convocazione di un tavolo di settore, che ormai ha assunto la dimensione di una grande vertenza nazionale. Sono mesi che chiediamo di confrontarci con il governo per chiedere lo stop alla pratica delle gare a massimo ribasso, che determina una riduzione dei diritti dei lavoratori e rischio di infiltrazioni criminali negli appalti, ma anche una maggiore sicurezza del lavoro e dei dati, e delle clausole di salvaguardia speciale, oltre che un libro bianco per il settore delle Tlc”.

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