Nel 2010 erano oltre 1.500 i detenuti sottoposti a misura di sicurezza nei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari – Opg (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere), in sostituzione dei Manicomi Giudiziari di fine ‘800 e così rinominati dalla Riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 (l. 354/1975).

Dopo alterne vicende non indenni da polemiche e ritardi, a partite dal D.lgs. 230 del 22 giugno 1999, la legge 81 del 2014 ha disposto, secondo alcuni in maniera imprecisa e contraddittoria, la chiusura al 31 dicembre 2015 degli Opg, di fatto avvenuta in via definitiva nell’aprile 2017 e l’istituzione delle REMS (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) caratterizzate dall’esclusiva gestone sanitaria e con ciò riabilitativa dei soggetti di cui è stata riconosciuta la pericolosità sociale per infermità di natura psichica; 31 le REMS oggi presenti sul territorio nazionale, con circa 590 individui alloccati, mentre all’interno di 35 istituti penitenziari sono in funzione le ATSM (Articolazioni Territoriali di Salute Mentale) per un totale di 61 reparti e 265 detenuti coinvolti, per una gestione che, anche in questo caso, avrebbe dovuto essere prettamente sanitaria e quindi riabilitativa.

Ma i numeri citati di REMS + ATSM, seppure indicativi, rappresentano solo la punta dell’iceberg del problema (chi delinque è malato di mente o chi è malato di mente delinque?) della salute mentale in carcere, qualora si considerasse che le vere cifre del disagio psichico negli istituti penitenziari e che nessuno riesce a quantificare potrebbero essere fino a dieci volte superiori e che le cause interne sono ormai molteplici, tra l’altro spesso difettando assistenza medica specialistica e certificazioni sanitarie necessarie ad una allocazione degli interessati diversa da quella nelle sezioni detentive ordinarie e a costante contatto con gli altri ristretti, in ragione di rapporti tra Asl e enti penitenziari tutt’altro che idilliaci.

Qualche anno fa, stante l’insolito aumento di risse ed aggressioni che oggi, invece, costituiscono l’amara consuetudine dei sistema, conducemmo una rilevazione informale in 20 infrastrutture penitenziarie, da cui emerse che ad oltre il 60% dei detenuti venivano somministrati farmaci contenenti sostanze psicoattive, così che per tali soggetti la sofferenza per la detenzione veniva “superata” attraverso fasi di prevalente sedazione a cui però seguivano momenti di iperattività e spesso di reazione rabbiosa alle regole di convivenza interna, nell’abbraccio mortale tra il costante malessere psicologico ed una risposta che, laddove esistente, risultava solo a carattere farmacologico, cronicizzando patologie ed effetti.

Oggi, per nulla migliorate le condizioni di vivibilità interna, con le sezioni detentive a volte vere e proprie piazze di spaccio, al commercio/consumo tra detenuti di prodotti di origine terapeutica ma con finalità ormai in prevalenza “ricreative” quali Depalgos, Pegabalin, Xanas, Tavor e persino Brufen (sminuzzato ed inalato) si è aggiunto l’accresciuto afflusso di stupefacenti dall’esterno, che le carenze di organici e di strumenti professionali scarsamente contrasta.

La conseguenza più grave? La finalità risocializzante della pena detentiva è venuta meno e se nell’ambito delle REMS a fronte delle cure praticate risultano percentuali rilevanti di recuperi alla vita civile, per i malati che escono dal carcere per fine pena il destino è comunque segnato, oltre a farne facili prede delle associazioni criminali; c’è davvero da chiedersi per chi è affetto da infermità di natura psichica quanto gli attuali istituti penitenziari siano diversi dal vecchio manicomio criminale.

Fare molto di più di quel poco e niente che oggi si fa riguarda, quindi, anche il superamento nei fatti del vecchio slogan penitenziario, di moda negli anni ’90, che il Trattamento (rieducativo) è Sicurezza (interna ed esterna per la Collettività) per sostituirlo, in termini di prevenzione e cure effettive, con quello che la Salute mentale è Sicurezza.

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