di Germano Fiore

Un uomo uccide una psichiatra che lo ha avuto in cura, Barbara Capovani.

La notizia della morte della collega non mi ha sorpreso più di tanto. Chi fa lo psichiatra e non è superficiale sa che esiste un rischio implicito nel mestiere: meno di quello di un magistrato antimafia ma più di quello di un commercialista. In circa venti anni di attività sono stato aggredito fisicamente due volte: poco? tanto? non lo so ma è così.

Chi è Gianluca Paul Seung? Premetto che non parteciperò al gioco delle diagnosi ipotizzate a partire da articoli degli organi di stampa: conoscere una persona e formulare una diagnosi significa averne in mente le parole, l’odore e l’effetto che ti fa sulla pelle quando è seduto di fronte a te. Per me la psichiatria è ancora una cosa cosa seria.

L’assassino, ancora presunto, è un uomo ricoverato varie volte in reparti psichiatrici e autori di vari reati tra cui violenza sessuale e lesioni personali, per accoltellamento, ai danni di un altro psichiatra. È anche un attivista per i diritti dei malati psichiatrici, più volte invitato a congressi di psichiatria democratica. Quattro volte sottoposto a perizia psichiatrica: tre volte dichiarato sano di mente, in ordine ai reati ascritti, una no. Ove condannato andrà in carcere se capace di autodeterminarsi o in Rems, se incapace di intendere e di volere.

Partita repentinamente la ricerca delle corresponsabilità si registrano in ordine sparso: magistrati, carabinieri, periti, la solitudine, la legge 180, i sindacati, la scarsità di risorse economiche e di personale in salute mentale, l’assenza di guardie giurate, psichiatri che hanno legittimato l’assassino facendolo sedere ai loro tavoli congressuali, fino ad arrivare alla stessa deceduta per non averlo curato bene. Inserisco la sorte, così per non dimenticare nessuno.

Questi i fatti che conosco.
Casi così, fortunatamente senza esito fatale, sono rari ma non unici. Nell’ultima riunione di equipe dell’Unita Operativa che dirigo ci siamo confrontati su una persona che desta analoghe preoccupazioni. La psichiatria incontra spesso la violenza muovendosi tra due poli contrapposti, semplificatori: se il gesto violento è un sintomo di psicosi allora è coinvolta, altrimenti la persona è un criminale e i fatti non sono i nostri.

Questa visione riduzionista lascia fuori dal ragionamento una fetta di umanità cui, prescindendo da se è matto o meno, probabilmente appartiene l’assassino. La cattiveria, la natura maligna, la psicopatia, l’antisocialità, la tendenza abituale a delinquere: parole simili ma che nascondono visioni diverse. Autori di reati ripetuti contro la persona in assenza di rimorso. Invento un acronimo per comodità: ARR. Gli ARR si muovono in una terra di nessuno in cui, né matti né sani o un po’ matti e po’ sani, non trovano risposte adeguate né da parte della magistratura né della salute mentale.

È evidente che stiamo parlando di risposte preventive e quindi dobbiamo essere ben consapevoli che si gioca su un crinale pericoloso: ridurre le libertà personali in maniera adeguata prima che venga compiuto un reato. Questa scelta è etica e appartiene alla visione dello Stato nel quale vogliamo vivere: come l’aborto o l’eutanasia mette in gioco le coscienze.

Uno Stato con S maiuscola può decidere come vuole ma non far finta che il problema non esista. E la psichiatria c’entra qualcosa? Se è ancora la scienza che si occupa del pensiero e del compartimento umano deve esprimersi e spingere perché il Parlamento, ove lo ritenga, legiferi.

Tra Barbara e il suo assassino è mancato lo scudo di Achille. Quello scudo siamo noi cittadini, noi psichiatri, loro legislatori.
Ciao Collega, che dall’ipogeo la tua voce si continui a sentire forte.

@sunballo

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