Ormai siamo assuefatti. Diciamo la verità: in generale l’economia, il business, il mercato non stanno funzionando come dovrebbero. I grandi profitti di pochi, rispetto alla perdita del potere d’acquisto dei moltissimi, sono un indice estremamente negativo della salute dell’economia mondiale. Se questa tendenza proseguisse, vorrebbe dire che siamo di fronte a una metastasi dei tradizionali sistemi economici, certamente basati sul capitale e sulla libera concorrenza, ma fondati soprattutto sulla continua crescita economica delle moltitudini. Invece, le aziende aprono e chiudono, seguendo l’andamento dei benefit di breve dei manager; vanno e vengono dietro agli scarsi, risucchiati dividendi degli azionisti. E così basta un refolo d’aria per cancellare un’azienda che fa pochi profitti e investe pochissimo; dove il poco che cola – finché dura – è destinato solo a retribuire i vertici, e si licenzia, si licenzia fino a scomparire.

Questo è anche il caso di un’altra azienda storica, Tupperware, in questi giorni afflitta da gravissimi e apparentemente insolubili problemi di liquidità, in odore di chiusura, una delle tante che quasi non ci facciamo più caso.

Al solito, quando un’azienda scompare, il danno maggiore non è la perdita dei posti di lavoro, non sono i capannoni abbandonati, gli uffici deserti o il patrimonio distrutto. Anche per noi che pure non siamo appassionati delle riunioni salottiere con te e pasticcini, ci dispiace sapere che Tupperware cesserà di organizzarne; ci dispiace e molto, non per i colorati contenitori in polipropilene, ma per uno stile, per una cultura aziendale che se ne va per sempre. Piangiamo la dissoluzione di un patrimonio immateriale che si era creato nei decenni, quella cultura d’impresa, il know-how aziendale, come dicono coloro che non sanno come si esprimeva il grande banchiere Raffaele Mattioli.

Tupperware era un’azienda diversa e aveva fatto proprio della sua diversità la cifra imprenditoriale che l’aveva portata al successo. La tecnologia da sola, infatti, non basta per creare ricchezza, per far crescere le imprese e l’intera società. Tupperware non aveva vinto, non aveva avuto successo grazie all’idea del “tappo a stappo”, con i famosi contenitori. Tupperware si era imposta al mondo nel momento in cui aveva compreso che per vendere certi prodotti bisognava spiegarne con cura le modalità di utilizzo, i vantaggi, e questo era possibile solo con dimostrazioni pratiche, contatti diretti e accurati, rapporti personali. Poi le cose sono cambiate, le imitazioni si sono moltiplicate, Tupperware ha dovuto cambiare pelle, e anche se i prodotti sono rimasti sempre fedeli alle promesse, l’effetto novità è finito. Tupperware ha dovuto diversificare, assomigliare agli altri, rincorrere la concorrenza, la spinta dell’innovazione iniziale è andata esaurendosi.

La storia anche in questo caso insegna. Primo, che le aziende veramente nascono e muoiono, spesso scompaiono del tutto. Ma, al contrario degli uomini, anche su questa terra, hanno poche possibilità di risorgere. E l’aldilà non è nemmeno una speranza per chi fa business, bisogna accontentarsi dei limiti materiali dell’uomo, della nascita e della morte, di una vita soltanto. Fino a che punto ci si può quindi spingere per qualcosa che prima o poi si dissolverà nel nulla? Vale la pena per il “bene”, la sopravvivenza di un’azienda, distruggere la natura, addirittura portare donne e uomini a morire per allungare la vita di organismi che in ogni caso saranno destinati a scomparire? La contabilità dei profitti davanti al saldo dell’esistenza umana è spietata e potrebbe sconsigliare certi appetiti eccessivi.

Seconda e ultima riflessione. La tecnologia da sola non basta per fare business. Prima di tutto ci vuole la virtù imprenditoriale. Non necessariamente un bravo pizzaiolo riuscirà a creare una pizzeria di successo. L’uomo (e la donna, speriamo) restano al centro del successo del business, nel rispetto delle leggi di natura e dell’umanità che li circonda. Tutto il resto conta poco. Arriverderci Tupperware.

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