C’era una volta la storia che, in Arabia Saudita, i detenuti condannati a morte per reati commessi quando erano minorenni avrebbero ottenuto la commutazione della pena. Ad alcuni è andata così, ma non ad Abdullah al-Howaiti, ora ventenne, che è nel braccio della morte da quando aveva 14 anni. Oltretutto, per un reato – l’uccisione di un agente di polizia nel corso di una rapina in una gioielleria, nella città costiera di Duba – che non ha commesso.

A scagionarlo c’è persino un video, esibito durante il processo, che lo ritrae mentre gioca a pallone sulla spiaggia durante la rapina e nell’ora successiva. In altre immagini, riprese dalle telecamere a circuito chiuso, si vede il rapinatore muoversi con estrema freddezza, due armi in pugno, per poi fuggire su un’auto della polizia dopo aver ucciso un agente. Dalla statura, tutto sembra meno che un quattordicenne.

Sebbene non potesse essere nello stesso momento in due posti diversi, al-Howaiti ha confessato, e questo è bastato per condannarlo a morte. Ma, com’è prassi in Arabia Saudita, le “confessioni” sono estorte con la tortura e sono sufficienti perché il tribunale emetta la condanna.

Al-Howaiti ha esaurito gli appelli e potrebbe essere messo a morte da un giorno all’altro.

In Arabia Saudita nel 2022 sono state eseguite quasi 150 condanne alla pena capitale, più della somma dei due anni precedenti.

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