Dalla tortura alla gogna mediatica. Può essere vero, come descritto nella relazione illustrativa della proposta di legge per l’abolizione, che le fattispecie introdotte dal Legislatore nel luglio 2017 mediante gli artt. 613 bis e 613 ter del codice penale e recanti nel titolo, rispettivamente, “Tortura” e “Istigazione del pubblico ufficiale a commettere torture” presentino caratteri di contraddittorietà e di genericità, ad esempio, rispetto alla Convenzione contro la tortura ed altre pene e trattamenti crudeli, inumani e degradanti (CAT) adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984.

Altrettanto, potrebbe condividersi che la figura di reato introdotta dall’art.613 bis c.p., contrasti con gli inderogabili principi, propri della norma penale, di tipicità, tassatività e determinatezza tanto da rendere passibili gli appartenenti alle Forze di Polizia di “denunce pretestuose” e di discrezionali ipotesi accusatorie nell’interpretazione di determinati comportamenti.

Ciò nonostante, è quanto mai semplicistico affermare che il reato di tortura, come detto introdotto nel 2017, sia la spada di Damocle che grava sulla testa degli appartenenti alle Forze di Polizia criminalizzandone l’azione a favore dei delinquenti o che, al contrario, rappresenti il deterrente “principe” per particolari e gravi abusi, stante l’esistenza nell’ordinamento anche di altre rilevanti condizioni di reato, come risulta evidente se si rammenta quanto accaduto per gli episodi nella scuola di via Diaz a Genova in occasione del G8 del 2001, ovvero e più specificamente per il carcere e la Polizia penitenziaria per le vicende giudiziarie a Sassari nel 2000 o per quelle risalenti al 2012 e conclusesi di recente con 4 assoluzioni della cosiddetta “cella zero” di Napoli‐Poggioreale, a significare che l’abolizione, nei fatti, cambierebbe ben poco.

Peraltro, se le particolari e persino risentite affermazioni di questi giorni, pro o contro l’abolizione del reato di tortura quale al momento previsto dal codice, in termini generali possono essere una ben conosciuta caratteristica del dibattito tra opposte opinioni in tema di sicurezza e giustizia, ben peggiori stanno risultandone gli effetti rispetto alle irrisolte criticità del sistema penitenziario, qualora si consideri che, oramai da anni, il silenzio e soprattutto le facili strumentalizzazioni ne impediscono qualsivoglia soluzione.

Circa 300, pari allo 0,7% dell’organico nazionale, sono attualmente i poliziotti penitenziari indagati e/o rinviati a giudizio per presunte torture in danno di detenuti e la descrizione che assai spesso ne risulta dalla cronaca è quella di pubblici dipendenti dello Stato a ciò dediti per prassi consolidata, se non per innata crudeltà. Per converso, nessuno sembra preoccuparsi che nelle carceri e nell’ordine di migliaia siano ogni anno le aggressioni subite dal personale, persino condite da quotidiani insulti anche di carattere familiare o sull’inutilità/inconsistenza del ruolo e delle funzioni svolte, al pari delle risse e delle aggressioni tra ristretti e dei tentativi di suicidio su cui è d’obbligo intervenire immediatamente anche vincendo dure resistenze.

Ovviamente, nulla può giustificare eccessi e sopraffazioni illecite da parte di chi rappresenta lo Stato nel carcere, ma il clima, le condizioni di lavoro e le tipologie della popolazione detenuta nei penitenziari italiani, spesso condizionate dalle criminalità all’esterno come all’interno, in questo momento contano più che mai se chi vi opera è in assoluto difetto di organici, di formazione professionale, di strumenti anche normativi, oltre che di organizzazione e di tutela.

Per questo, per ciò che riguarda il carcere, le polemiche ed i gradimenti persino entusiastici sulla possibile abolizione del reato di tortura possono costituire non solo un falso problema ma anche una sorta di alibi per chi, oggi, nella gestione politica e amministrativa di un sistema fallimentare sotto molti aspetti, avrebbe l’obbligo di agire ed è invece caratterizzato dall’inazione e dall’assenza di progetti in quanto principalmente occupato nel mantenimento dello status quo.

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