In un paese dove ogni per ogni Della Valle o Del Vecchio ci sono novantacinque Bianchi o Rossi, titolari di una officina meccanica o di un laboratorio di produzione artigianale, esiste una cultura della piccola impresa? Una domanda non retorica che si basa sul presupposto che questo bagaglio di sapere, saper fare e saper essere “può essere considerato un fondamentale agente di (pro)positività per lo sviluppo di questo importante asset italiano”.

Tanti sottolineano la crescente importanza di questo patrimonio di conoscenze, un fattore chiave nella vita economica perché abbraccia l’insieme dei valori e delle convinzioni che guidano l’attività di chi lavora in azienda, dai riti alle liturgie. Insomma, tutto quello che la pubblicistica anglosassone chiama Small business culture è una disciplina manageriale emergente. E che rappresenta il vero collante sociale di tutte le piccole organizzazioni. Non per niente oggi si dice che “Ogni impresa ha una sua propria cultura, anche se non lo sa”.

I paesi anglosassoni, grazie al protestantesimo, non solo sono stati la culla dello sviluppo economico e del moderno capitalismo, ma hanno rappresentato anche quella logica calvinista che ha favorito la crescita degli imprenditori, del rischio, dell’industria, della competitività e della concorrenza. In Italia, invece, ristagna sempre un retrogusto di sospetto verso chi intraprende una resistenza strisciante al riconoscimento del ruolo della cultura della piccola impresa nei processi di modernizzazione e sviluppo.

Altrove è materia di insegnamento: il governo inglese promuove una settimana dedicata alla cultura del rischio nelle scuole. Altrettanto avviene in Francia con l’Ecole Enterprise. Nel nostro paese, invece, la small business culture è confinata in angoli residui del dibattito. Competizione e attitudine al rischio, laddove non esistono quei paracadute invece sempre disponibili per le grandi imprese, nei Paesi con una democrazia di mercato più evoluta, sono componenti irrinunciabili del progresso. Da noi conservano ingiustificabili valenze negative.

Ci sono tossine antindustriali e antimoderne che in alcuni casi prevalgono, nella manifattura come nei servizi e anche nel primario, specialmente laddove esistono monopoli o cartelli e soprattutto nelle zone protette dell’economia italiana. Come se la piccola impresa fosse un ospite tollerato, corteggiato ma temuto e spesso indesiderato – sulla strada dello sviluppo, in quel faticoso “confezionare la torta” senza la quale restano da redistribuire solo miseria, povertà e tanta “invidia sociale” invece di una feconda e contagiosa corsa all’emulazione del migliore, come avviene in certi distretti industriali.

C’è stata una modernizzazione del sistema capitalistico, con un’accelerazione in particolare negli ultimi anni, con alcune leggi: diritto societario, risparmio, credito, fallimento, passaggio generazionale, lavoro. Ma ancora troppo spesso vi è maggior consenso sulle misure che limitano le attività della micro-impresa rispetto a quelle che possono incoraggiarle. E così lo zaino delle Pmi pesa sempre di più.

Oggi il valore “immateriale” dello spirito piccolo-imprenditoriale è percepito come secondario. L’attitudine al rischio viene vista nella sua accettazione potenzialmente negativa, da imbrigliare, come il portato di un egoismo inconfessabile. In alcuni casi il “non fare”, l’arroccarsi in comode rendite di posizione, finisce per avere uno spessore giuridico ed etico superiore al “fare”. Sembra che il concetto di impresa “senza se e senza ma” non esista. La parola è sempre accompagnata da un aggettivo destinato a temperarne gli effetti: impresa aperta, sociale, responsabile, come se l’azienda “dura e pura”, da sola, non contenesse in sé e per sé nessuna positività, ma solo disvalori. Come se la cultura della piccola impresa dovesse essere sempre declinata e giustificata, sotto tutti gli aspetti.

Insomma, in Italia la piccola azienda sembra abbia bisogno di un avversativo. Quasi a voler “prendere le distanze”. Ma lungo questa strada è davvero difficile seguire il sentiero della crescita. E non è sempre colpa del Sig. Bianchi o del Sig. Rossi.

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