Da tre mesi il Paese è scosso dalle proteste, che oggi raggiungono un nuovo picco di indignazione, nel giorno in cui la Knesset dà il via libera al provvedimento per salvare il premier Benjamin Netanyahu dai suoi guai giudiziari mentre ricopre la carica di premier. Il Parlamento di Tel Aviv ha trasformato in legge – con 61 voti a favore e 47 contrari in una maratona notturna – uno dei primi tasselli della contestata riforma giudiziaria avanzata dal governo Netanyahu, il più a destra di sempre: nello specifico, il provvedimento impedisce alla Corte Suprema di dichiarare, per vari motivi, “inadatto” alla sua carica un primo ministro in costanza di mandato. Un premier potrà essere rimosso dalla sua posizione solo per impedimento fisico o mentale. E questo deve essere approvato almeno dal 75% dei ministri dell’esecutivo e se il premier si rifiuta almeno dal 75% della Knesset. La norma è sempre stata considerata dai media e dall’opposizione “ad hoc” proprio per Netanyahu, visto che il premier poteva essere considerato in conflitto di interessi proprio con la riforma giudiziaria a causa del suo processo per corruzione in corso a Gerusalemme. Già l’Avvocato generale dello stato Gali Baharav-Miara aveva sollevato questo problema. E sono tre mesi che ormai che Israele assiste a proteste di massa contro la riforma del sistema giudiziario. L’opposizione e una larghissima parte dell’opinione pubblica accusano l’esecutivo di voler mettere sotto controllo politico la magistratura minando le fondamenta della democrazia.

Se il premier incassa la vittoria sulla sua norma ad personam, ha però dovuto cedere a un ammorbidimento su un punto focale della riforma giudiziaria: quello relativo alla Commissione che nomina i giudici della Corte Suprema. Un’apertura che alcuni commentatori hanno legato alla telefonata tra Netanyahu e il presidente Usa nella quale Biden ha sottolineato che i “valori democratici sono stati e devono restare il segno distintivo dei rapporti fra Stati Uniti e Israele e che i “cambiamenti fondamentali devono essere portati avanti con la più ampia base possibile di sostegno”. Nel testo originale i membri della coalizione di governo avevano la netta maggioranza per la nomina di nuovi giudici. Ora invece nella nuova stesura quella potestà è ridotta, anche se viene facilitata l’indicazione immediata di due giudici graditi alla maggioranza stessa. La mossa per ora è stata approvata in quella che è stata definita dai media una “tempestosa riunione” dalla “maggioranza” dei deputati del Likud, partito traino della coalizione di destra, convinti che il disegno di legge, anche nella nuova formulazione, “riporti equilibrio al Comitato di selezione dei giudici e metta fine a uno stato non democratico nel quale i giudici nominano se stessi”. La nuova formulazione ha però registrato il no secco dell’intera opposizione. Sia i centristi Yair Lapid e Benny Gantz sia la laburista Merav Michaeli hanno parlato di “trappola” della maggioranza. “Questo non è un compromesso. E’ anzi – ha denunciato Lapid – l’espugnazione del sistema giudiziario. Faccio appello ai giudici onesti a non candidarsi alla Corte Suprema, se quella legge passerà – ha ammonito – non accettate di essere nominati quali ‘giudici della coalizione’ invece che giudici dello Stato d’Israele. Sarebbe per voi un marchio di infamia”. E per Michaeli non si tratta “né di un compromesso né di una attenuazione: è Ungheria e Polonia sotto steroidi”.

Tuttavia i problemi non sembrano finiti neanche all’interno della maggioranza. Secondo i media Yoav Gallant, ministro della Difesa – un ruolo chiave in qualunque esecutivo israeliano – ha detto a Netanyahu che avrebbe “difficoltà a continuare come ministro”, ovvero darebbe le dimissioni, se sulla riforma giudiziaria non ci fosse una mediazione. Secondo le stesse fonti, Gallant ha sottolineato a Netanyahu la mancanza di consenso tra gli israeliani – come mostrano le 11 settimane di proteste nelle piazze – ma anche le criticità che si stanno manifestando nell’esercito con le ripetute prese di posizione dei riservisti di non presentarsi ai loro doveri di richiamati se persiste la riforma giudiziaria. Una posizione per Gallant “pericolosa” e che “potrebbe danneggiare la capacità dell’esercito di compiere le sue missioni”.

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