Contrordine, i soldi portano felicità, in barba alla saggezza popolare che recitava il contrario. Lo rivela uno studio pubblicato di recente sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), guidato da due ricercatori, il britannico Daniel Kahneman e lo statunitense Matthew Killingsworth, che erano partiti da tesi differenti. Kahneman, dieci anni prima, era infatti arrivato alla conclusione che oltre un certo livello di guadagno (70mila dollari) la felicità non aumenta.

I due ricercatori hanno quindi unito i loro sforzi e con il contributo della professoressa della Penn Integrates Knowledge University Barbara Mellers sono arrivati a una specifica sintesi. Nel documento pubblicato della National Academy of Sciences, il trio di ricercatori rileva che, in media, redditi più elevati sono associati a livelli di felicità sempre crescenti. Nello studio sulla felicità, sono stati intervistati 33mila lavoratori americani. Mentre i partecipanti svolgevano le loro attività quotidiane, è stata posta loro una domanda in momenti casuali della giornata tramite l’app per smartphone “Traccia la tua felicità”: “Come ti senti in questo momento?”. I partecipanti potevano quindi rispondere su una scala da “molto bene” a “molto male”. In totale, i ricercatori hanno raccolto oltre 1,7 milioni di singoli dati e sono arrivati alla conclusione che le persone che guadagnano di più sono in media più felici di quelle che hanno uno stipendio inferiore. Anche con un reddito annuo di oltre 80mila dollari Usa, non c’era segno di interruzione nel benessere quotidiano.

Contrariamente a quanto ipotizzato in precedenza dai ricercatori, il denaro può benissimo rendere felici le persone. “In altre parole, questo suggerisce che per la maggior parte delle persone, un reddito più elevato è associato a una maggiore felicità”, afferma Killingsworth. Alla base di tutto c’è, secondo i ricercatori, un senso di controllo sulla propria vita che il denaro dà alle persone. Questo a sua volta le rende felici. Con una eccezione: le persone che stanno bene finanziariamente ma sono infelici. “Per esempio, se sei ricco e infelice, più soldi non ti aiuteranno. Per tutti gli altri, più soldi erano associati a più felicità a vari livelli”, ha spiegato ancora Killingsworth. Mellers approfondisce quest’ultimo concetto, osservando che il benessere emotivo e il reddito non sono collegati da una singola relazione. “La funzione è diversa per le persone con diversi livelli di benessere emotivo”, afferma. Nello specifico, per il gruppo meno felice, la felicità aumenta con il reddito fino a 100mila dollari, quindi, non mostra ulteriori aumenti con l’aumentare del reddito. Per coloro che si trovano nella fascia media del benessere emotivo, la felicità aumenta linearmente con il reddito e per il gruppo più felice l’associazione accelera effettivamente oltre i 100.000 dollari.

In ogni caso, sembrerebbe che per essere felici siamo destinati a desiderare più soldi possibili. O forse dobbiamo rivedere il concetto di felicità? “In questi anni sono in corso moltissime ricerche sul benessere e sulla felicità, che in realtà sono più descrittive che prescrittive: cercano di spiegare come funzioniamo come esseri umani, non ci danno una ricetta da seguire valida per tutti”, ci spiega Maura Gancitano, filosofa e scrittrice, fondatrice di Tlon, una casa editrice e anche progetto di divulgazione. “Tra l’altro, i dati raccolti ci dicono molto anche della società in cui viviamo, perché possiamo immaginare che in altre epoche o in altri luoghi del mondo i risultati sarebbero stati diversi. In questo senso, una ricerca non ci dice niente una volta per tutte, ma ci mostra lo stato dell’arte fino a oggi. Non esiste quindi un destino prescrittivo, esiste una serie di variabili possibili, e credo che sia importante che queste ricerche sollevino degli interrogativi, prima di tutto su ciò che intendiamo per felicità, perché non è detto che i criteri per misurarla siano condivisi da tutte le persone”.

È anche vero che il vecchio detto “I soldi non danno la felicità” appare spesso come un mantra consolatorio per legittimare forti disuguaglianze tra le persone…
“In effetti, un luogo comune come questo si presta a molte interpretazioni, ma raramente viene sottolineato il fatto che la stabilità economica è spesso un privilegio di pochi anziché un diritto di tutti. Avere una casa, per esempio, ha un effetto enorme sulla salute mentale, e numerosi studi hanno trovato un’associazione tra la proprietà della casa e un migliore stato di salute. Eppure, oggi comprare casa è sempre più difficile per le generazioni più giovani. Sottolineare questo non significa pensare che i soldi diano senso in sé, ma che lo stato di precarietà in cui tante persone vivono incide sul benessere generale”.

Riprendendo una metafora contenuta nel suo libro scritto insieme ad Andrea Colamedici, La società della performance, in un’arca immaginaria che cosa dovremmo portare con noi per sentirci – almeno un po’ – felici?
“Dipende dal sistema di valori di ogni persona, da una serie di credenze e dalla visione del mondo. Ognuno di noi può riflettere sui propri valori e cercare sinceramente di capire quali siano, perché possono anche cambiare nel corso della vita. Quello su cui però possiamo agire insieme sono dei principi condivisi che possano permettere a tutte le persone di fiorire e aumentare il proprio benessere, e per farlo bisogna prima di tutto considerare che il benessere collettivo non è solo una somma di ogni stato di benessere individuale, ma richiede azioni concrete di riduzione delle diseguaglianze e delle discriminazioni. Oggi, al contrario, il miglioramento del proprio benessere sembra essere un fatto privato, e chi ha difficoltà economiche, fisiche o psicologiche viene considerato colpevole di questo, anziché ricevere sostegno dalla società”.

Il concetto di felicità legato ai soldi sembra confermare i classici parametri per misurare la ricchezza di un Paese, il Pil; mentre negli ultimi anni si è affacciata di più l’idea che di un Paese andrebbe misurato il Benessere interno lordo – Bil – basato su indicatori più ampi e non esclusivamente materiali.
“Lo studio pubblicato su Pnas è di fatto più legato a una serie di criteri di benessere molto più vasti, tra cui c’è anche l’aspetto economico, ma è vero che viviamo in una società in cui il criterio per stabilire lo stato di salute di un Paese è quanto riesce a produrre. Ciò avviene nonostante sia evidente che il modello di produzione e consumo negli ultimi quarant’anni ci abbia condotto in una situazione ambientale ed economica fortemente critica, che non ha migliorato il benessere delle persone; anzi, provoca grandi problemi di salute mentale. Studi come questo sono utili per descrivere ciò che sta accadendo, purché non vengano strumentalizzati per difendere lo status quo e l’idea di performance a cui le persone oggi sono spinte in ogni ambito della vita”.

Articolo Precedente

Angioplastica sul cuore di un feto, 90 secondi per dilatare la vena ostruita

next