Che l’ossessione della Banca centrale europea fosse l’inflazione si sapeva. Come era noto il fatto che combatterla a ogni costo avrebbe avuto delle conseguenze. Tuttavia, nonostante le critiche arrivate da più parti, la governatrice, Christine Lagarde, ha tirato dritto, annunciando un rialzo dei tassi da 50 punti base (0,5%) nell’ultima riunione della Bce del 2 febbraio e impegnandosi ad aumentarli nella stessa misura anche a marzo. Gli effetti hanno già iniziato a farsi vedere: la corsa dei prezzi nell’eurozona ha rallentato dal 9,2% di dicembre all’8,5% di gennaio, mentre l’economia, almeno per il momento, tiene meglio del previsto.

Insomma, i fatti sembrano dare ragione a Lagarde. Sembrano, appunto, perché ci sono diversi fattori da tenere in considerazione, non ultimo il fatto che i Paesi che adottano l’euro e che quindi subiscono le decisioni dell’Eurotower sono piuttosto diversi tra di loro. A mettere in discussione la ricetta seguita dalla Bce sono gli stessi economisti di Francoforte che in un recente studio hanno stimato quanta importanza i banchieri centrali dovrebbero attribuire alla disoccupazione nelle loro decisioni. Il titolo è emblematico: “Una politica monetaria unica per mercati del lavoro eterogenei: il caso dell’area euro”. Gli autori del paper partono spiegando che sia la Bce che la Fed, la Banca centrale americana, hanno recentemente rivisto la propria strategia proprio alla luce dell’impatto che le loro decisioni hanno sull’occupazione.

Lo stesso presidente della Fed, Jerome Powell, lo ha detto in modo esplicito: “La nostra revisione riflette l’apprezzamento per un mercato del lavoro forte, in particolare per quanti si trovano in comunità a basso o moderato reddito”. Va detto, tuttavia, che, nello Statuto della Fed, il primo obiettivo, che precede la stabilità dei prezzi e il perseguimento di tassi di interesse moderati nel lungo periodo, è proprio la piena occupazione. E questa caratteristica è la ragione per cui la revisione di Francoforte è stata più sfumata. In documento del 2021, “Una panoramica della politica monetaria della Bce”, viene sottolineata la preoccupazione per gli effetti non uniformi delle decisioni sui tassi di interesse, in particolare per quanto riguarda le differenze tra i Paesi che adottano l’euro. Si apre quindi la porta a considerazioni che possano determinare “un compromesso temporaneo tra occupazione a breve termine e stabilizzazione dell’inflazione”, a patto, però, che ciò avvenga “senza mettere in pericolo la stabilità dei prezzi a medio termine”.

Insomma, la stella polare è sempre la lotta al carovita, tutto il resto rimane secondario. Ma è lo studio della Bce sugli effetti sul mercato del lavoro a criticare, seppur con un linguaggio tecnico e asettico, la cieca battaglia condotta finora contro l’inflazione. I risultati, infatti, consigliano di fare l’esatto opposto di quanto fatto da Francoforte. Già, perché combattere l’inflazione senza tenere conto che questo fa aumentare il numero delle persone senza lavoro, dal momento che i rialzi dei tassi frenano l’economia, non è certo la soluzione migliore. Al contrario, se durante uno choc da offerta, come quello che abbiamo vissuto con la riduzione degli approvvigionamenti di energia e materie prime e la conseguente impennata dei prezzi, la Banca centrale si dimostra attenta agli effetti delle sue decisioni sull’occupazione, non solo la disoccupazione rimane contenuta ma addirittura l’inflazione torna velocemente su sui binari.

Inoltre, siccome i Paesi dell’eurozona hanno mercati del lavoro e strutture produttive molto diverse, anche il più piccolo errore rischia di amplificare le divergenze tra gli Stati membri. “Quando la politica monetaria risponde agli sviluppi della disoccupazione”, scrivono gli autori dello studio, si registra “un aumento della disoccupazione più basso dopo uno choc da offerta”. Sebbene ciò porti a un aumento più rapido e più forte dell’inflazione, si traduce anche in un rapido ritorno dell’inflazione a livelli più bassi dopo lo choc”. Ma c’è dell’altro. “Rispondere alla disoccupazione tende a ridurre le disuguaglianze tra e all’interno dei Paesi dell’area dell’euro. Se la politica monetaria ignora la disoccupazione e risponde solo all’inflazione, ciò porta a maggiori fluttuazioni della produzione e della (dis)occupazione”.

In altre parole, si hanno cali più bruschi dell’economia e del mercato del lavoro. Infine, decisioni sui tassi poco oculate accrescono anche le disuguaglianze all’interno dei singoli Paesi sul fronte dei consumi. Se dopo uno choc inflazionistico “la banca centrale non risponde alla disoccupazione, la differenza tra i consumi delle diverse tipologie di famiglie” si legge nello studio, “va a favore delle famiglie più ricche”.

Tradotto: se si combatte solo l’inflazione, si determina una riduzione dell’occupazione, dei salari e delle probabilità di trovare lavoro che impatta sulle fasce più fragili della popolazione, le quali, a loro volta, rispondono tagliando i consumi. Il contrario, ovvero maggiori consumi per i nuclei più in difficoltà, si verifica quando una forte crescita economica che riduce la disoccupazione e aumenta l’inflazione (choc da domanda) viene assecondata dalle autorità monetarie. Insomma, la ricetta di Francoforte appare bocciata in pieno. Certo, non è tutta colpa della governatrice Lagarde se la Bce si mossa diversamente da quanto i suoi stessi ricercatori consigliano. Al contrario della Fed che, oltre alla stabilità dei prezzi, per statuto persegue anche la piena occupazione, Francoforte ha il solo obiettivo di tenere l’inflazione attorno al 2%. E questo a (quasi) qualunque costo. La Lagarde, insomma, ha le mani legate.

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