Che la rivolta in corso ormai da cinque mesi nella Repubblica Islamica d’Iran non fosse una rivolta “contro la religione” lo si era già capito nelle primissime settimane. In seguito alla morte di Mahsa Amini, ragazza proveniente da una famiglia di etnia curda e tradizionalista, in piazza erano scese sin da subito decine di migliaia di persone in almeno una ventina di città: una buona parte di esse erano donne e una porzione rilevante di esse indossano il chador, un tipo di velo che in Iran non è obbligatorio e che di norma segnala l’appartenenza a famiglie conservatrici.

Che non fosse una rivolta contro i chierici in quanto tali, simboli incarnati del sistema politico vigente, lo si era poi intuito dai timidi ma crescenti appelli sparsi contro la violenza del regime lanciati da alcuni religiosi locali, come Hossein Nuri Hamedani o Asadollah Bayat Zanjani, Molavi Abdolhamid Ismaelzahi, Naser Makarem Shirazi, Ali Akbar Massoudi Khomeini, alcuni dei quali di orientamento conservatore.

Che la percezione delle dure norme sul controllo della morale pubblica, della brutalità e della postura anacronistica delle autorità iraniane rispetto a richieste di cambiamento in seno alla società – oltre 19 mila arresti ed almeno una ventina di condanne a morte accertate, di cui 4 già eseguite – sia nettamente cambiata rispetto ad una ventina di anni fa, lo dimostrano anche le esecuzioni di personalità una volta influenti come l’ex viceministro della difesa, Alireza Akbari, ma anche decine di altri arresti “illustri”, come quello di Fahezeh Rafsanjani, figlia dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi – appena condannata a 5 anni di carcere – o quello di Farideh Muradkani, nipote della Guida Suprema Ali Khamenei, condannata a 3 anni.

Quel che invece sorprende, e che soprattutto sembra poter spostare il baricentro emotivo e ideologico e di questa frattura che ha ormai tutti i crismi di uno scontro frontale tra la gran parte della società civile e i custodi dell’architettura religioso-militare nata in seguito alla rivoluzione del 1979, è la posizione che hanno assunto nelle ultime settimane diversi religiosi di alto rango, considerati “organici” al regime di Teheran. Non più soltanto vaghi appelli alla clemenza del potere giudiziario o quelli alla moderazione della violenza dei Guardiani della rivoluzione contro le piazze in subbuglio, ma vere e proprie messe in discussione di alcuni principi legali, o meglio dell’interpretazione di alcune norme penali vigenti dal 1979.

Tutto sembra ruotare attorno ad una parola chiave, moharebeh (“guerra contro Dio”), cioè il reato per cui sono stati giustiziati i rivoltosi e condannate decine di persone. Moharebeh deriva dalla parola hirabah, che in arabo vuol dire “guerriglia“, e ha la stessa radice della parola “guerra” (harb). Il concetto di hirabah, pur non comparendo mai in questa forma nel Corano, affonda le sue radici in alcuni versetti della Sura 5, quella della Tavola imbandita, che secondo la tradizione sarebbero stati rivelati al Profeta Muhammad dopo che alcuni membri del clan degli Urayna finsero di convertirsi all’Islam per “rubare ai musulmani”, uccidendo poi un predicatore.

Il concetto di Hirabah viene declinato nel codice penale iraniano – che ingloba e, in piena tradizione sciita, reinterpreta diversi principi della Shari’a – col termine persiano moharebeh, utilizzato in sede giudiziaria nei confronti di chi viene accusato di seminare “violenza e terrore”. L’utilizzo sempre più disinvolto di questo principio da parte del potere giudiziario non sta più solo incontrando l’ovvia ostilità della comunità internazionale e quella della società civile, da sempre ostili alle norme vigenti, ma anche le critiche di natura giuridico-religiosa, nel merito, da parte di alcuni dei religiosi più importanti dell’universo sciita, in diversi casi legati alle stesse strutture di potere dello Stato, spesso provenienti dalle scuole di Qom e anche da quella di Najaf, la sua “competitor” irachena, dove si registra il silenzio-dissenso di quello che è forse il più ascoltato ayatollah dell’intero mondo sciita, Ali Al Sistani.

Come ha ricordato l’analista Muhammad Jawad Adib, ad esempio, l’esecuzione ad inizio dicembre di Mohsen Shekari non aveva solo richiamato l’attenzione dei media internazionali. Più significativamente, aveva spinto l’ayatollah Mohammad Ali Ayazi a rilasciare un’intervista all’agenzia Ilna in cui specificava indignato che “esiste una definizione di moharebeh nella giurisprudenza islamica e implica l’utilizzo di un’arma con l’intenzione di provocare terrore nelle persone e di portare la guerra nei confronti di Dio e del Profeta Muhammad”. L’ayatollah Ayazi aveva poi messo in guardia il regime stesso, ricordando alle autorità che nella Repubblica Islamica “i processi vanno svolti in pubblico, agli imputati deve essere data la possibilità di difendersi con un avvocato indipendente e deve essere sempre presente una giuria”: tutti aspetti più o meno disattesi nel corso di alcuni processi-lampo ai danni dei giovani sopracitati.

Nel rifiuto dell’idea che chiunque prendesse parte alle proteste potesse potenzialmente essere accusato di moharebeh, Ayazi aveva aggiunto nel corso dell’intervista che “quando qualcuno esercita il diritto di protestare contro lo status quo e la polizia tenta di ostruirlo noi non possiamo considerare moharebeh le conseguenti azioni a difesa dei propri diritti”, di fatto lasciando intendere che i manifestanti, come Shekari, hanno diritto a difendersi dalla violenza della polizia.

Non solo: Ayazi, che ha ottenuto scarsissima attenzione dai media occidentali, aveva poi di fatto sottinteso che tutte le condanne a morte emesse sulla base di moharebeh senza il sostegno di una giuria potrebbero essere considerate degli esempi di ikhafa, cioè “indurre un senso di insicurezza e ‘paura’ (la traduzione letterale della radice araba del termine) nella società civile”. Insomma, secondo l’ayatollah molte delle condanne sarebbero state emesse in modo strumentale e pretestuoso, a fini “pedagogici”, o per meglio dire come strumenti di terrorismo psicologico.

Ayazi non è solo un religioso considerato favorevole al vilayat e faqih, non appartiene solo ai più alti ranghi della “gerarchia” religiosa sciita (essendo appunto un ayatollah), non è solo espressione della “fucina” di Qom ma è anche uno dei membri della locale Assemblea dei ricercatori e seminaristi, lobby interna al seminario, già balzata agli onori delle cronache 14 anni fa dopo le proteste per la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad.

Pochi giorni dopo i commenti di Ayazi erano arrivate le dichiarazioni dell’ayatollah Mohammad Ali Gerami, nel corso di un’intervista al sito web Jamaran, nelle quali aveva citato anche lo stesso ayatollah Khomeini, fondatore della Repubblica Islamica: “(L’ayatollah Khomeini”) ci ricordava che il Corano prevede tre tipi di punizione per chi commette moharebeh: esecuzione, amputazione degli arti o esilio. Se chi commette moharebeh non ha materialmente ucciso nessuno e non ha rubato in alcuna proprietà, non può essere condannato a morte, ma solo all’esilio in un’altra città”.

Gerami aveva poi fatto riferimento all’ “estremismo” insito in alcune delle condanne emesse nel corso di questi 5 mesi, finendo per accusare il potere giudiziario di aver deliberatamente “allargato” la casistica che caratterizza il reato di “diffusione della corruzione in terra”, tradizionalmente utilizzato nei confronti di chi è accusato di tradimento (di solito i “dissidenti” iraniani), ribadendo come non possa essere chiamato in causa quando qualcuno è colpevole di “diffusione di informazioni false” (propaganda), come invece accaduto a diversi ragazzi e ragazze arrestate per l’attivismo sui social.

Ancor più specifico era stato lo scorso 11 dicembre l’ayatollah Morteza Moqtadaie, che aveva ribadito come il moharebeh implichi l’utilizzo di un’arma da fuoco e non, ad esempio, di un “pezzo di legno” (lo stesso Shekari, così come Rahnavard, non avrebbero usato armi da fuoco, ndr). Per parlare di moharebeh, l’accusato deve “evidenziare l’intenzione di preparare la guerra” e in ogni caso può essere condannato a morte solo chi commette omicidio volontario.

È tutt’altro che un dettaglio il fatto che Moqtadaie, oltre ad esser stato giudice della Corte Suprema, procuratore generale e capo del Seminario di Qom, sia addirittura uno degli attuali 88 membri dell’Assemblea degli Esperti, cioè il corpo di religiosi eletti a suffragio universale ogni 8 anni che ha la facoltà di eleggere e teoricamente rimuovere la Guida Suprema dal proprio incarico, monitorandone in via esclusiva l’operato.

Queste critiche al funzionamento del sistema giudiziario, provenienti da personalità che per il loro ruolo e profilo vengono considerate di default come custodi del sistema vigente, evidenziano anche un paradosso: sono di fatto critiche all’iniquità e agli anacronismi del regime al pari di quelle che vengono dalla società civile, ma non reclamano certo uno Stato laico, per cui risultano più complesse da silenziare. Mirano, anzi, a rilevare una certa incompetenza, che per molti di questi religiosi deriva da una dinamica in atto da alcuni anni: la carenza di mujtahid (religiosi) in grado di interpretare correttamente la legge islamica, in luogo dei quali vengono nominati giudici magari malleabili, ligi alle disposizioni del giudiziario e della Guida Suprema, ma sempre più spesso privi delle credenziali religiose normalmente necessarie nel vilayat e faqih. L’iniquità delle sentenze di matrice giuridico-religiosa è la stessa ravvisata dal resto della società civile ma deriva proprio dalla “laicità” dei giudici che ne sono autori.

Che una buona parte dei giudici manchino “della astuzia, dell’indipendenza e della sufficiente conoscenza delle procedure giuridiche” lo ha ripetuto alcuni giorni fa anche l’ayatollah Mostafa Mohagheg Damad e non è certo il solo. In una lettera aperta nei confronti dei giudici della Repubblica islamica, scritta lo scorso 15 dicembre, Damad – preside del dipartimento di legge all’Università Shahid Beheshti di Teheran ed ex capo dell’Ispettorato generale dello Stato – ha invocato la necessità di un “maggiore e più profondo scrutinio” dei giudici prima dell’emissione delle sentenze, chiudendo la stessa lettera con un cupo avvertimento che non aveva chiamato in causa solo Dio ma, più insolitamente, la storia: “Essa non dimenticherà gli errori e le negligenze in relazione al sangue ingiustamente versato e alle punizioni inique“.

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