Con una cadenza quasi periodica ritorna a far parlare di sé l’idea, neanche troppo originale, di istituire delle “gabbie salariali”. Risale ai primi anni del Secondo Dopoguerra e definiva diversi salari in ragione del “costo della vita” in altrettante zone, in cui il Paese risultava suddiviso. Solo dopo imponenti mobilitazioni sindacali e operaie si mise in discussione questo sistema ritenuto discriminante in quanto a una stessa mansione faceva corrispondere diversa retribuzione; si ottenne l’abolizione nei primi Anni Settanta.

Oggi qualcuno ripropone più o meno apertamente le “gabbie salariali”, come se fossero una panacea, con l’intento di ritoccare le retribuzioni di alcune categorie di lavoratori in funzione del costo della vita in certi territori del Paese, dove è ritenuto più alto che altrove. Spesso, soprattutto sul piano dei luoghi comuni, si fa riferimento al “costo della vita” confondendolo con l’ammontare del canone locazione, con preciso riferimento ad alcune zone delle grandi città del Nord. Trascurando che anche a Roma, o in altre grandi città del Sud, gli affitti a centro città sono troppo cari e in alcuni casi neanche troppo dissimili. E che a Milano, come a Roma, spostandosi di pochi chilometri, il canone scende in modo significativo. Le città sono ovunque più care in tutto il Paese e non soltanto al Nord. Queste prime considerazioni paiono evidenziare come non avrebbe senso parlare di zone omogenee a cui applicare il criterio del “costo della vita” parlando confusamente di Nord, di Centro o di Sud.

Tornando al merito della questione, si tratta di intendersi bene su cosa sia da valutare come “costo della vita”, perché gli affitti al centro di una metropoli non restituiscono la questione con la necessaria completezza, affetti come sono da intenti speculativi che potrebbero distorcere la relazione tra costo e valore di un immobile. In ogni caso propongo alcune riflessioni che potrebbero aggiungere possibili spunti di riflessione, senza alcuna pretesa di utilità al dibattito o di esaustività.

Chi propone le gabbie salariali nel 2023 avrà sicuramente preso in considerazione la non omogenea disponibilità di servizi nel Paese visto che qualsiasi banca dati (Svimez-Eurostat-Istat) mostra una chiara disomogeneità di servizi all’interno del Paese, soprattutto a svantaggio del Sud. Questo comporta che un cittadino, per rimediare a una lacunosa offerta dei servizi, sia costretto a rimediare a spese proprie. Questo tipo di valutazione non può che ricadere nel cosiddetto “costo della vita” e sarà stato senz’altro preso in considerazione.

Sempre a beneficio del dibattito in corso riporto alcuni dati salienti tratti dal Rapporto Istat su “sanità e salute”, del 2019. Il primo dato riguarda il numero dei posti letto negli istituti di cura e la relativa distribuzione sul territorio nazionale. Erano 98.576 al Nord, 36103 al Centro e 56331 al Sud e Isole, (ossia la metà del Nord), pur con una popolazione pari al 40% circa del totale nazionale. Molti dati tendono a rimarcare questa disparità di offerta dei servizi in ambito sanitario. Il numero di posti letto in strutture sanitarie con assistenza residenziale risulta pari a 194.103 al Nord, 37.089 al Centro, 26.218 al Sud e Isole. Un dato particolarmente raccapricciante è quello che contempla i decessi nel primo anno di vita, su base territoriale, ogni 1.000 nati vivi: sono 5,3 al Nord, 3 al Centro e 7.3 al Sud, Isole incluse. Credo non occorra riportare altri dati del Rapporto e soffermarsi su altri aspetti che potrebbero concorrere a formarsi un’idea più completa del “costo della vita” in un territorio.

Quanto pesano le imposte sui rifiuti sulle tasche dei cittadini italiani? I dati riportati da Il Giorno parlano abbastanza chiaro. Nel 2021 era di 312€ l’importo medio della tassa per i rifiuti in Italia. La regione con la spesa media più bassa, 232€, risultava il Veneto, con una diminuzione del 4% circa rispetto all’anno precedente. La regione con la spesa più elevata – 416€ – resta la Campania. Nello stesso anno si sono registrati aumenti in dodici regioni: in Liguria (+10,3%), in Basilicata con +8,1%, il Molise con +6,1%, in Calabria con una variazione pari a +5,9%. Questo non sarebbe da considerarsi “costo della vita”?

Ampliamo il focus su una scala più ampia: se migliaia e migliaia di persone vengono spinte a studiare fuori o a curarsi fuori, in forza di una migliore aspettativa di cure o di formazione, questa scelta sottende la presa d’atto di una presunta differenza qualitativa nell’offerta di tali servizi: qualcuno ha provato a stimare la spesa sostenuta dalle famiglie (quasi del tutto meridionali) per permettersi questo tipo di spostamenti. E parliamo di miliardi di euro ogni anno.

Anche le addizionali regionali e comunali Irpef hanno un peso sulle nostre tasche e non sono omogenee sul territorio nazionale. Va da sé che a una sempre minore entità dei trasferimenti statali verso gli enti meno dotati di risorse farà da riscontro un aumento del prelievo in tasse e tributi. Tutti dovrebbero intendere che questo discorso ha molto a che fare anche col progetto delle autonomie regionali differenziate, di cui più volte si è parlato in questo spazio.

Andrebbe attribuito alla voce “costo della vita” anche il maggior disagio subìto da imprenditori che intendano avviare un’attività in un territorio dotato di minore infrastrutturazione materiale e digitale, dalle ferrovie alle autostrade. Parliamo di asili nido citando le parole del Rapporto Istat 2019 su Nidi e servizi integrativi per la prima infanzia: “Permangono ampi divari territoriali: sia il Nord-est che il Centro Italia consolidano la copertura sopra il target europeo (rispettivamente 34,5% e 35,3%); il Nord-ovest è sotto, ma non lontano dall’obiettivo (31,4%) mentre il Sud (14,5 %) e le Isole (15,7%), pur in miglioramento, risultano ancora distanti dal target”. Una figura di merito rilevante, che influisce soprattutto sulle aspettative di carriera delle donne.

Sarebbe il caso di ricordare come oggi sussista un fondamentale dovere da parte di chi sta gestendo le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): colmare il divario tra Nord e Sud del Paese, non certo acuirlo con bizzarrie anacronistiche, o rischiando persino di seminare conflittualità e ulteriori disparità, di cui il Paese non ha certo bisogno. Al contrario, il mandato ricevuto a suo tempo dall’Unione Europea, che ha messo a disposizione ingenti risorse, è quello di attenuare i clamorosi divari persistenti nel nostro Paese e che ne costituiscono una preoccupante fragilità, come è emerso apertamente durante il periodo pandemico.

Articolo Precedente

Le Pmi non sanno negoziare con le banche. Eppure è più semplice di quanto sembri

next
Articolo Successivo

“Quando arriva McKinsey”, il libro che racconta le ombre della “più prestigiosa società di consulenza al mondo”

next