Ora che Benedetto XVI è tumulato nelle Grotte vaticane si chiude un’epoca di confusione e ambiguità. E non è un caso che solo adesso Francesco abbia ricevuto per un incontro mons. Gaenswein, ponendo fine alla punizione del suo “esilio”. Sì, è stata una stagione di confusione e ambiguità perché in tutta la storia della Chiesa cattolica un “papa emerito” non è mai esistito. Chi rassegnava le dimissioni o era costretto a ritirarsi conservava al massimo il titolo di cardinale (ma nemmeno sempre). In ogni caso spariva totalmente dalla scena pubblica.

L’idea di concedersi la qualifica di pontefice emerito e mantenere l’abito bianco papale è stata un’invenzione di Ratzinger, probabilmente incoraggiato dal suo segretario Gaenswein che già era contrario alle dimissioni. Meglio sarebbe stato – e più coerente con l’umiltà e la nobiltà di Ratzinger – seguire l’esempio di Celestino V: spogliarsi di tutte le vesti pontificali e indossare la tonaca del monaco.

Sappiamo già che Francesco pensa di eliminare l’equivoco dei “due papi”: in futuro si parlerà unicamente di un vescovo di Roma emerito.
Ma intanto per un decennio l’ambiguità c’è stata. Una personalità vestita di bianco, per di più alloggiata all’interno delle mura vaticane, ha fatto da silenzioso “secondo polo” nel pontificato di Bergoglio.

E’ sbagliato credere che la sua presenza abbia frenato i conservatori. Non è mai stato così. Per una ragione molto semplice: Ratzinger non ha mai voluto mescolarsi alle manovre anti-Francesco del fronte conservatore. Non ha mai voluto dare ascolto a chi veniva da lui a lamentarsi delle aperture riformiste di papa Francesco. Ha sempre sottolineato che “il Papa è lui… lui e sa quello che fa”.

Così facendo si è mostrato leale nei confronti del suo successore. Ma la storia finisce qui. Il fronte conservatore-tradizionalista si è mobilitato contro Francesco in maniera mai vista nei confronti di un pontefice negli ultimi cento anni (copyright Andrea Riccardi). Sono state lanciate contro Francesco petizioni, cardinali di primo livello hanno messo pubblicamente in dubbio le sue posizioni teologiche, in convegni convocati a due passi dal Vaticano si è parlato di sue “tesi eretiche”, un arcivescovo-nunzio ha preteso dinanzi all’opinione pubblica mondiale che Bergoglio lasciasse il trono papale! Altro che freni.

In questo senso la mera permanenza in Vaticano di una personalità pontificale è stata per gli avversari del riformismo bergogliano una stella di riferimento. In questi giorni si è voluto, infatti, dimenticare che Ratzinger non è stato soltanto il teologo e pensatore che predicava il dialogo indispensabile tra fede e ragione. Questo dialogo, da lui praticato prima dell’elezione con Juergen Habermas o Paolo Flores d’Arcais e continuato negli ultimi anni nel ritiro del suo convento vaticano con Piergiorgio Odifreddi, si è sempre svolto nell’iperuranio dei massimi sistemi teologici e filosofici.

Sul terreno di governo, invece, quando Benedetto XVI ha occupato il trono di san Pietro, il pontefice tedesco è stato infaticabile animatore di una guerra culturale con la modernità nel nome dei “principi non negoziabili”. Chi è vissuto in Italia non può dimenticare l’accanita opposizione condotta dalla conferenza episcopale italiana – con la benedizione espressa di Ratzinger – nei confronti del referendum sulla fecondazione eterologa e del primo abbozzo di una legge sulle unioni civili (governo Prodi). Attraverso una mobilitazione frenetica dell’associazionismo cattolico e dei politici ossequienti alla gerarchia ecclesiastica il referendum fu sabotato e il disegno di legge sui cosiddetti Dico finì al macero.

Se negli Stati Uniti negli anni recenti è esploso il dibattito all’interno della conferenza episcopale americana sulla legittimità o meno di dare la comunione ai politici democratici difensori della legge sull’aborto, questo è un fenomeno prodotto dalle cultural wars favorite dalla dottrina ratzingeriana.

Ancora oggi tutto ciò che si muove tra i gruppi cardinalizi e vescovili in manovre di attacco dottrinale a Francesco, si basa sull’eredità dell’arroccamento teologico ratzingeriano e wojtyliano.

Dunque la guerra civile interna alla Chiesa cattolica continuerà. Papa Francesco ha incontrato Gaenswein, perché una volta scomparso Benedetto XVI non ha più senso punire il suo segretario per l’intromissione senza precedenti che Ratzinger aveva fatto nell’attività di governo di Bergoglio, scrivendo un libro con il cardinale Sarah per opporsi all’eventualità che il papa regnante autorizzasse l’esperimento di preti sposati in Amazzonia.

Le memorie di mons. Gaenswein usciranno, ci saranno polemiche, ma il grosso della battaglia non riguarda più il passato. Riguarda il futuro. La posta in gioco è il prossimo conclave che l’agguerrito fronte conservatore – rafforzato dalle paure dei moderati – intende predeterminare.

Prima tappa per vedere i rapporti di forza interni alla Chiesa cattolica sarà il Sinodo mondiale che si terrà a Roma nel 2024. Lì si vedrà come si collocano gli episcopati più influenti in relazione ai grandi temi: struttura comunitaria del cattolicesimo, partecipazione dei fedeli (con particolare riguardo al ruolo delle donne) e missione della Chiesa nel XXI secolo.

Deve fare riflettere che a capo di uno degli episcopati più importanti sia nel concilio Vaticano II che nei conclavi successivi – l’episcopato statunitense – sia stato eletto l’ex ordinario militare e stretto collaboratore del cardinale Sodano (Segretario di stato di Giovanni Paolo II): l’arcivescovo Timothy Broglio.

Dal conclave non dovrà uscire assolutamente un “Francesco II”.

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