Ci voleva Giorgia Meloni, finalmente, per raddrizzare la barca e cominciare finalmente a farla muovere dalle secche trentennali in cui si era arenata la nostra povera repubblichetta, per cercare di riprendere la navigazione dopo la caduta della Prima Repubblica e la ripresa a “tutto vapore” della corruzione che attanaglia sempre più strettamente la nostra società.

La “parentesi dipietrista” è durata troppo poco. Era partito bene, Antonio Di Pietro, bisogna riconoscerlo, in poco più di un anno aveva costretto quasi tutti quei manigoldi a strisciare in ginocchio da lui chiedendo perdono per i loro abbagli sugli affari facili, ma… un pochino fuori legge.

Era il 17 febbraio ’92 quando Mario Chiesa, il Presidente Socialista del Pio Albergo Trivulzio (a quel tempo i socialisti andavano fortissimo nella “Milano da bere”!) intascava una mazzetta (ridicola al confronto di quelle che stanno saltando fuori attualmente dalle “sabbie infuocate” del Qatar) senza sapere che a guardarlo e tenerlo sotto tiro, in quell’esatto momento, c’era proprio il più grande segugio anti-corruzione mai apparso nelle stanze del potere italiano: un certo Antonio Di Pietro, il vero, unico, reale “castigamatti” anti-corruzione partorito sul nostro sacro suolo italico, avviato a cambiare radicalmente la storia d’Italia. Tanto per capire come funzionavano le cose in quel periodo, mese più mese meno, potrei ricordare quel colloquio che ho avuto riservatamente, nel lussuoso salotto adornato con vasi cinesi preziosissimi e col quadro originale (così dicevano) del “Ponte di Rialto” del Canaletto, nel quale il mio Istituto Speciale per Finanziamenti accoglieva i clienti, nuovi o abituali, per ascoltare e valutare le loro richieste. Questo era un imprenditore che voleva ampliare la sua fabbrica costruendo un nuovo capannone accanto al suo già esistente. I bilanci e l’importo dell’investimento li avevo già visti in un pacchetto di documenti portatimi un paio di giorni prima, ma ho subito notato che mancavano ancora le autorizzazioni comunali alla costruzione. Quando gliele ho chieste mi ha detto, quasi ridendo, che quello non era assolutamente un problema: “…basta ungere le ruote e la macchina corre!”. Ho fatto qualche obiezione ma lui ha risposto sempre “tranquillo” assicurando che “…fanno tutti così, è molto semplice”. Allora io gli ho detto “Beh, sarà anche così, ma io non lo voglio nemmeno sapere, ritorni quando avrà l’autorizzazione. Adesso non posso accettare la domanda”. Va bene, mi ha detto, ci vorranno al massimo due o tre settimane. Non l’ho più visto.

Ma proprio in quei giorni è cominciata la storia di Mani Pulite. Ogni giorno si leggevano sui giornali, o vedevano in tv, i nomi di diversi imprenditori o manager che andavano da Di Pietro a implorarlo di non “rovinarli”. Poi è andata come sappiamo, ma io, qualche anno dopo (nel frattempo ero espatriato negli Usa), ho avuto occasione (un paio di volte) di incontrare personalmente Di Pietro e di diventare un suo importante collaboratore, iniziando a tracciare la rete negli Usa per il suo ramo politico all’estero (poi è franato tutto, anche in Italia, per i tradimenti di alcuni suoi “amici” cui lui aveva aperto la porta del Parlamento).

La “falce” anti-corrotti che Di Pietro ha maneggiato per più di un anno ha però funzionato magnificamente, finché l’orrore per il “tintinnio delle manette” (che anni prima aveva terrorizzato i manigoldi) ora era diventato il simbolo di un eccesso di giustizialismo, reale solo in pochissimi casi, ma diventato utilissimo a chi, molto rapidamente, ha restaurato quel vecchio modo di fare che, proprio in questi giorni, ha raggiunto un nuovo pieno “splendore” contagiando persino l’istituzione europea.

Stiamo diventando tutti (meno i ricchissimi) ogni giorno sempre un po’ più poveri, ma possiamo sempre, con fiero orgoglio, gridare ai quattro venti che “…per nulla al mondo rinunceremo al nostro garantismo”, costi quello che costi (o addirittura, come ha detto in tv con convinzione un esagitato contestatore disoccupato: “…io sarò comunque sempre garantista al mille per cento!” (quello sì, che se ne intende di garantismo inossidabile!). Ho conosciuto però recentemente una signora truffata gravemente grazie alla renziana “depenalizzazione dei reati minori” e un’altra cui la stessa Inps ha sbarrato la strada per la pensione minima cui avrebbe diritto (aggirando le norme della Previdenza Sociale); che probabilmente si accontenterebbero di qualcosa meno anche del cento per cento di garantismo pur di sentire qualche volta tintinnare anche le manette, se servisse a difenderle davvero dalla valanga di truffatori che, anche per la dilagante mancanza di lavoro vero, infesta sempre più pesantemente l’intera nostra società.

Meloni nella sua “infanzia” politica ha certamente conosciuto il vecchio motto del Msi (Movimento Sociale Italiano) che, ad ogni elezione, vantava (con diritto): “Noi siamo gli unici in Italia ad avere veramente le mani pulite”; la Dc, il Pci, il Psi, ecc. non possono dire la stessa cosa. Avevano ragione! Ma ora che c’è Meloni a governare una destra che non è più in “frigorifero” – e fin qui, almeno da quel che si vede dalle sue scelte, il ministro Nordio non sembra avviato ad imitare Di Pietro (ma nemmeno Bonafede, a mio parere) – siamo sicuri che riuscirà a mantenere intatto quel record?

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“Leggi razziali una vergogna che ha segnato la nostra Storia per sempre, infamia che avvenne nel silenzio di troppi”: le parole di Meloni

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