La presidente Metsola che lascia Malta in fretta e furia per presenziare alla perquisizione di un eurodeputato a Bruxelles. Basta forse questo a dare la misura del terremoto al cuore delle istituzioni democratiche europee destato dallo scandalo dell’inchiesta sulla “lobby del Qatar” che ha portato all’arresto, tra gli altri, della vicepresidente Eva Kaili. Mentre l’inchiesta fa il suo corso, getta di riflesso un’ombra pesantissima sullo stesso sistema di integrità morale dell’istituzione comunitaria e sulle scarse difese che si è dato contro le ingerenze dei “portatori di interessi”, non solo privati ma addirittura di altri Paesi che non ne fanno parte, come appunto il Qatar o il Marocco. Un sistema che sarebbe anche tra i più sofisticati e avanzati al mondo, ma che per volontà dei protagonisti coinvolti resta tale solo sulla carta, consentendo a parlamentari in carica come la Kaili e pure agli ex come Antonio Panzeri di esercitare la loro influenza, dietro pagamento o incentivo, sulle decisione delle massime autorità politiche e regolatorie dell’Unione.

Parla apertamente di “diffusa cultura dell’impunità” Alberto Alemanno, professore di Diritto dell’Unione Europea presso l’HEC di Parigi. Ricercatore e analista, è anche il fondatore di The Good Lobby, il principale movimento di advocacy che democratizza il lobbying come “pratica sana e legittima di vita democratica in grado di pareggiare l’accesso al potere”. E’ tra i più titolati a mettere in fila le falle del sistema di vigilanza contro pressioni lobbistiche dell’Europarlamento: a partire da un “registro delle lobby” che solo è facoltativo, dall’assenza di un divieto del parlamentare a fare il lobbista a pagamento durante il mandato, e di sanzioni per chi viene beccato. Fino alla mancanza di vincoli per il post-mandato, nonostante riceva una specifica e generosa indennità, pagata dai contribuenti europei, proprio per evitare che cada in tentazione e finisca per “monetizzare” la sua capacità di influenza sui decisori pubblici.

Alemanno a Bruxelles combatte ancora oggi una battaglia antica e campale: dieci anni fa, insieme a Transparency International, elaborò per la Commissione la proposta di un’autorità etica indipendente con reali poteri istruttori, di vigilanza, e sanzione. La Von der Leyen l’ha fatta propria nel 2019, ma non è mai diventata una proposta concreta e ora il Consiglio giuridico solleva questioni e tenta di annacquarla e svuotarla di competenze. “Tre giorni fa – racconta Alemanno – ero a Bruxelles per presentare le mie contro-deduzioni e difenderla: spero che questa vicenda clamorosa ed enigmatica porti le istituzioni e in particolare la Commissione a tradurre finalmente in qualcosa di concreto questa promessa di trasparenza”. Perché le falle del sistema, a lungo tollerate, lo stanno sgretolando. Eccole.

Partiamo dal sistema etico europeo
E’ un sistema di integrità che si è sviluppato nel corso degli anni, prevede il rispetto di tutta una serie di regole etiche che si applicano sia agli eletti che ai funzionari. Il rispetto di queste regole oggigiorno è affidato a comitati ad hoc che esistono in seno a ciascuna istituzione, dunque la Commissione e il Parlamento ha il suo. E’ un sistema molto frammentato perché le regole e i sistemi di applicazione sono diversi. Sulla carta è più sofisticato e avanzato di quelli in vigore nella maggior parte degli stati membri inclusa l’Italia. Ma è un sistema che, come vediamo in questo frangente, ha enormi falle.

Quali sono le falle maggiori?
Il Parlamento europeo ha storicamente resistito alla possibilità di imporre ai loro eletti il rispetto di obblighi di dichiarazione per esempio di incontri, in nome della cosiddetta libertà del mandato parlamentare. Dunque i parlamentari per primi sostengono che qualunque forma di obbligo nei loro confronti di dichiarare chi incontrano e come svolgono il loro mandato sarebbe contrario alla libertà che deriva dagli elettori. Questo è l’argomento politico e giuridico che è stato utilizzato e ha portato oggi il Parlamento europeo a essere la Cenerentola dei controlli di integrità.

In che senso?
Ad oggi i membri del Parlamento Europeo durante il mandato, caso Kaili, non sono tenuti a riportare i loro incontri e dunque possono incontrare chiunque e addirittura far entrare al Parlamento Europeo portatori di interessi del Qatar o del Marocco senza doverlo dichiarare a nessuno. E questo è un’eccezione. Un commissario o un funzionario europeo non può fare lo stesso, è una prerogativa dei parlamentari europei.

Con quali effetti?
Questo ha creato una cultura dell’impunità piuttosto significativa. Perché anche in caso di violazione il Presidente del Parlamento Europeo, in questo momento Metsola, ha un’autorità piuttosto limitata nell’adottare delle decisioni nei confronti di questi individui. E quindi nella maggior parte dei casi, e questo è un caso evidentemente patologico eccezionale, il parlamentare europeo non riceve sanzioni se non di tipo reputazionale, per cui in plenaria magari la presidente dopo aver parlato col bureau potrebbe fare un richiamo orale rispetto al comportamento di un deputato. Ma questo non avviene, perché regole base da infrangere non sono state tradotte in divieti.

La più clamorosa e pericolosa?
Durante il mandato non c’è neppure un divieto a svolgere mansioni pagate da terzi. Abbiamo circa un quarto dei parlamentari attuali che dichiara di svolgere attività professionali per conto terzi che sono retribuite. E queste attività sono dichiarate e dunque potrebbero ben essere limitate dalla Presidente del Parlamento Europeo ma non lo sono mai, così abbiamo il parlamentare che fa l’avvocato, il medico con danni limitati, ma abbiamo anche quello che in realtà porta avanti interessi particolari facendo fondamentalmente il lobbista durante il mandato. E questo è un comportamento che viola apertamente i principi di indipendenza e integrità che si impongono al parlamentare europeo ma che sono di fatto tollerati dalla pratica attuale e creano quelle “relazioni speciali” che poi portano il parlamentare in uscita a continuare a mantenere quelle attività professionali e a monetizzarle ulteriormente.

Per chi lascia il Parlamento Europeo?
Nel caso di Panzeri, cioè di chi ha lasciato la carica da tempo, all’indomani della cessione del mandato quell’individuo non è soggetto a nessuna regola post-mandato, a differenza di un commissario o di un funzionario europeo. E questo crea evidentemente incentivi a un eurodeputato di continuare a rimanere in contatto con gli stessi portatori di interesse che incontrava e magari favorito. Di qui il fenomeno delle “porte girevoli”, che è molto diffuso. Transparency International continua a pubblicare rapporti dove il numero di parlamentari che hanno monetizzato la loro influenza in fase post mandato è più della maggioranza di quelli che escono, Dunque è norma sociale e politica è di continuare a portare avanti quegli interessi e continuare a essere retribuiti per quello.

Ma gli ex parlamentari non hanno una buona uscita per questo?
Esattamente. Quel fenomeno è tanto più grave e ingiustificabile proprio perché agli ex deputati viene riconosciuto un compenso in uscita: un anno di salario equivalente a quello percepito al PE, circa 100mila euro. La ratio di queste forme di compenso è di permettere a questi individui di reintegrarsi nel mondo del lavoro senza dover assecondare richieste lobbistiche. Dunque quel compenso è totalmente ingiustificato, se è vero che la maggior parte di loro continua a esercitare questa attività per cui sono retribuiti. Per altro il sussidio si cumula con altri come la pensione, è un vero scandalo.

Dunque anche Panzeri ha ricevuto un assegno di fine mandato per non fare il lobbista?
Senz’altro. Al termine del loro mandato, gli eurodeputati hanno diritto a un’indennità transitoria, pari alla loro retribuzione, per un mese all’anno in cui sono rimasti in carica. Quel sussidio per altro è automatico, gli eurodeputati lo ricevono nella “buona uscita”, una sorta di assegno di fine mandato da 100mila euro. La durata massima di tale indennità è di due anni. Panzeri non è più parlamentare dal 2019, l’inchiesta verte su fatti del 2020-2021. Si sarebbe ben potuto astenere e aveva un sussidio pagato dai contribuenti europei per farlo. Un solo mandato è sufficiente per maturare questo sussidio che persegue un obiettivo ma chiaramente non viene raggiunto e anzi viene smentito dalla realtà. Mi pare sia una percentuale del loro stipendio.

Le contromisure adeguate da mettere in campo?
Sulla carta l’Unione Europea dispone su un sistema etico e di integrità tra i più sofisticati e precisi al mondo. Tuttavia questo sistema, come ho dimostrato, presenta dei limiti significativi quando si tratta della implementazione, dell’applicazione di queste norme e il fatto che il principio generale sia quello dell’autoregolazione degli eletti, cioè che siano i membri del Parlamento a giudicare i propri colleghi, crea di fatto un impasse perché c’è un conflitto di interessi tra il controllore e il controllato. E bisogna superare questo, abbiamo avanzato una proposta specifica che è rimasta lettera morta.

Di cosa si tratta?
La proposta ha ormai circa 10 anni e fu fatta allora da Transparency International e da alcuni ricercatori e professori come il sottoscritto. Avevamo proposto di creare un’autorità etica indipendente comune a tute le istituzioni capace di monitorare questi comportamenti, chiedendo a tutti gli attori coinvolti e cioè funzionari ed eletti di fare dichiarazioni finanziarie, di riportare gli incontri e poi successivamente dare poteri istruttori a questa autorità e anche sanzionatori in modo tale da creare deterrenza e una cultura di rispetto delle norme etiche.

E che fine ha fatto questa proposta?
E’ stata fatta propria dalla Presidente della Commissione entrate Ursula Von De Layen nel 2019 che ha chiesto alla propria commissaria della Giustizia Věra Jourová di tradurla in una proposta concreta. Ad oggi, siamo ad un anno e mezzo dalla chiusura del ciclo politico 2019-2024 la Jourová e la Commissione non hanno ancora tradotto questo mandato politico in una proposta legislativa. Tuttavia, paradossalmente, proprio il Parlamento europeo ha ricordato alla Commissione questo impegno a proporre e ha adottato anche una risoluzione per portarla avanti, dicendo abbiamo bisogno di questo Comitato etico indipendente.

E come è finita?
Il Consiglio giuridico della Commissione sembrerebbe aver sollevato tutta una serie di argomenti giuridici per dire che questo Comitato qualora lo si proponesse dovrebbe avere molte meno competenze per cui di fatto si sta annacquando il mandato da attribuire al comitato. E proprio tre giorni fa ero al Parlamento Europeo per presentare uno studio che mi è stato commissionato da una deputata italiana del M5S che si chiama Sabrina Pignedoli e con altri autori, un australiano e un americano, abbiamo cercato di rispondere a questi argomenti un po’ farraginosi della Commissione. Speriamo che questo episodio possa portare le istituzioni e in particolare la Commissione a tradurre finalmente in qualcosa di concreto questa promessa di trasparenza.

E basta un Comitato etico indipendente?
No, è fondamentale in questa fase ma dobbiamo anche andare a vedere il registro della Trasparenza, che è il registro che non abbiamo in Italia ma che spingiamo perché sia adottato anche da noi, che impone ai portatori di interessi un obbligo di iscrizione in modo tale da avere un puntuale registro per sapere chi sono gli individui e le organizzazioni che provano a influenzare i nostri decisori. Ad oggi questo registro presenta un limite importante perché ha una natura essenzialmente volontaristica e non vincolante, non è possibile a imporre a nessuno di registrarsi, l’unica sanzione è che se non sei registrato non puoi accedere agli uffici delle istituzioni europee ma puoi incontrare il parlamentare il commissario al bar sotto, aggirando il divieto. Ma soprattutto questo registro ad oggi non obbliga ambasciate, portatori di interessi provenienti terzi di essere registrati così come lo chiediamo per esempio ai professionisti della lobby. Una delle proposte che faccio è di rendere obbligatorio questo registro trasparenza e ampliare il suo ambito di applicazione.

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