Da alcuni anni a questa parte in tutte le città italiane, nelle tabaccherie o nei negozi specializzati, è possibile acquistare la “cannabis light”, una varietà di canapa senza effetti stupefacenti. Dappertutto tranne a Parma dove, nel 2019, con l’obiettivo di dimostrarne “l’efficacia drogante”, la procura ha sequestrato fino all’ultimo grammo di prodotto. A tre anni di distanza, il 3 novembre scorso, è iniziato il processo che potrebbe influire su tutto il settore in Italia. Al centro dell’inchiesta c’è il parmigiano Luca Marola, che nel 2017 ha aperto EasyJoint, una catena di negozi specializzati nella vendita di cannabis light. A fine luglio 2019 gli sono stati sequestrati 649 chili di prodotto per un valore di circa 2 milioni di euro. E ora è a processo per violazione dell’articolo 73 del Testo Unico sugli Stupefacenti. Tradotto: è accusato di spaccio e rischia una condanna dai due ai sei anni.

“Per dimostrare che la cannabis light è una droga, l’accusa ha prodotto oltre 7600 pagine e ha intercettato centinaia di conversazioni telefoniche, sequestrato e distrutto l’intero magazzino (649 kg di infiorescenza), cancellato l’oggetto sociale della mia società dalla camera di Commercio e sequestrato il sito internet” spiega a ilfattoquotidiano.it Marola, che ha anche lanciato una raccolta fondi online per sostenere le spese del processo, circa 40mila euro. Dal 2016 il settore della cannabis light è regolato da una legge, la 242 del 2 dicembre, che contiene un elenco tassativo delle destinazioni d’uso della canapa industriale. Ma nel testo c’è una lacuna: non vengono citate le inflorescenze, il prodotto più importante. Insomma, la legge che doveva fare chiarezza, in realtà, serve a poco. E a farne le spese sono tutte quelle attività che negli ultimi anni, vista la domanda crescente di cannabis light, sono nate per produrre e vendere la “marijuana legale”, con basso contenuto di Thc (tetraidrocannabinolo, la molecola responsabile dell’effetto psicotropo) e ricca invece di Cbd (cannabidiolo, che dà una sensazione di rilassamento).

“La cannabis light” sottolinea Marola, “è principalmente un’iniziativa politica, una forma di disobbedienza civile perché troviamo inconcepibile che una legge che all’articolo 1 ha lo scopo di promuovere e sostenere la filiera della canapa ignori i due prodotti che più di tutti stanno tirando a livello globale, ossia i fiori e gli estratti. Così abbiamo iniziato a commercializzare il fiore per spingere le istituzioni a rimediare all’errore, convinti che in un sistema giuridico occidentale se una cosa non è espressamente vietata allora è permessa. Dall’altra parte non c’era il rischio di cadere nel penale: il fiore di canapa industriale non contiene Thc, se non in misura infima, e non può quindi essere considerato uno stupefacente”. Per la procura, invece, la produzione, la distribuzione e la vendita dei fiori di canapa, anche se con un quantitativo di Thc inferiore allo 0,2% – soglia stabilita dalla normativa europea e ripresa anche dalla legge del 2016 per la coltivazione – sono attività illegali. E Marola – che è stato il primo ad inventare il nome commerciale “cannabis light” – è diventato il simbolo di una battaglia politica.

Al punto che il procuratore di Parma lo ha definito “macchina del consenso”, “capace di propagare l’equivoco sulla liceità di un prodotto che lecito certamente non è; capace di influenzare l’opinione pubblica, i media, la politica, le istituzioni e la magistratura associata”. L’inchiesta è partita a inizio 2019 con una ricognizione per stabilire quali fossero i negozi che vendevano i fiori di cannabis. Nel frattempo si aspettava un intervento chiarificatore della Cassazione. Purtroppo, però, la decisione della Corte, arrivata il 30 maggio 2019, non ha diradato l’oscurità della legge del 2016. “Non ha chiarito nulla” prosegue Marola, “perché la sentenza diceva tre cose: che la politica avrebbe dovuto rimaneggiare la normativa; che le inflorescenze non possono essere commercializzate perché non sono citate dalla legge; e, soprattutto, che la commercializzazione è un reato a meno che non si possa escludere la capacità drogante in concreto”. Nell’estate del 2019 sono partiti i sequestri in città. Tabaccherie e negozi specializzati si sono visti requisire la merce. Ma la sentenza ha aperto la strada a una serie di sequestri in tutta Italia, poi revocati perché non si è riusciti a provare la “capacità drogante” dei prodotti.

E ora, a Parma, si è arrivati al rinvio a giudizio. “Tutto si basa sul teorema del procuratore capo Alfonso D’Avino secondo cui, se si prova che il fiore di cannabis viene venduto per fini diversi da quelli espressamente previsti dalla legge del 2016, allora si ricade nella disciplina prevista dal Testo Unico sugli stupefacenti. E questo anche in presenza di una quantità minima di Thc, inferiore allo 0,2%”. Il punto è proprio questo: al contrario che in altre città, dove nei processi si guardava al contenuto medio di Thc delle inflorescenze per vedere se la sostanza avesse o meno “efficacia drogante”, a Parma la procura, ritenendo a priori che si tratti di uno stupefacente, ha considerato il Thc di tutto il lotto per poi calcolare le “dosi droganti” (pari a 5 milligrammi di Thc). Risultato: dai quasi 650 chili di prodotto sequestrati a Easyjoint, secondo l’accusa si potrebbero ricavare più di 65mila dosi. “Ma tutti questi milligrammi di Thc in quanto materiale sono contenuti? Ai periti della procura non è mai stato chiesto, perché altrimenti verrebbe fuori tutto il grottesco della vicenda” prosegue Marola.

“Per avere un blando effetto drogante, uno dovrebbe fumarsi circa 16-18 grammi di prodotto, spendendo almeno 90 euro, quando con 5 euro si può comprare per strada una cannabis con un effetto molto più forte”. Il problema a monte rimane quello della non regolamentazione della cannabis light: tra le sei destinazioni elencate dalla legge manca infatti il consumo umano. E l’incertezza normativa spalanca la porta alle più disparate interpretazioni delle procure, che mettono a rischio aziende e posti di lavoro. “Ormai da due anni e mezzo, ogni settimana riceviamo due o tre segnalazioni di sequestri da parte di imprenditori” commenta Antonella Soldo, coordinatrice di Meglio Legale. “Quello della cannabis legale è un settore fortemente vessato ed è paradossale che dal 2016 nessun governo sia intervenuto a sanare la situazione. Abbiamo raccolto testimonianze incredibili, storie che se fossero accadute a qualunque altra categoria di lavoratori sarebbe scoppiato un putiferio. Invece gli addetti di questo settore vengono considerati lavoratori e imprenditori di serie B. Senza contare che per le aziende stare in una zona grigia rende tutto molto più difficile: le banche non concedono prestiti mentre, a parte paypall e i bonifici, tutte le altre modalità di pagamento online non sono consentite”.

Il comparto ha un giro di affari di 44 milioni di euro e occupa circa 12mila addetti, con un’età media di 32 anni, tutti attivi in agricoltura o nel commercio. Ma il mercato, stando ad alcune stime, potrebbe valere tra i 200 e i 500 milioni di euro. Al momento, in tutta Italia ci sono oltre 3mila negozi. Il processo di Parma è importante perché il suo esito avrà ripercussioni su tutto il settore della cannabis light. È nata anche un’espressione per indicare l’impianto accusatorio della procura: “modello Parma”. Un impianto che se dovesse risultare vincente in aula, è questo il timore degli operatori, potrebbe essere replicato anche altrove. “Se questa interpretazione ultra restrittiva della legge viene adottata da un tribunale allora diventa uno strumento utilizzabile ovunque e in grado di superare tutti i problemi degli ultimi anni” conclude Marola. “Ci sono una decina di procure in tutta Italia che stanno aspettando di vedere cosa succede qui: se vince il procuratore capo di Parma, partono i rinvii a giudizio anche nelle altre città; se invece perde, forse riusciremo a chiarire che cosa si può vendere e cosa no”.

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