Una trattativa a oltranza per provare a sbloccare la situazione. Con il rischio però di aprire una nuova battaglia legale. ArcelorMittal e Invitalia continuano il loro dialogo serrato sulla governance di Acciaierie d’Italia, la società che gestisce l’ex Ilva controllata dal colosso franco-indiano dell’acciaio e partecipato al 40% dalla società del ministero dell’Economia. La crisi di liquidità e le difficoltà di bancabilità di Acciaierie d’Italia, schiacciata anche da centinaia di milioni di euro di debiti verso i fornitori, stanno stressando il dialogo attorno all’utilizzo del miliardo di euro stanziato dal governo Draghi nel decreto Aiuti.

Ma all’acciaieria di Taranto, in agonia da tempo, resta poco tempo. E le motivazioni della confisca contenute nella maxi-sentenza Ambiente Svenduto non favoriscono il cambio di governance auspicato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, poiché per la Corte d’Assise di Taranto “un’eventuale conclusione” del Piano ambientale “non darebbe alcuna garanzia di superamento delle esigenze di tutela”. E, almeno sulla carta, senza dissequestro degli impianti non ci sono le condizioni per perfezionare gli accordi.

In linea teorica, una data chiave per raggiungere un accordo tra Mittal e la società del Mef potrebbe essere il 2 dicembre quando è in programma l’assemblea dei soci, rimandata negli scorsi giorni. Tuttavia diverse fonti segnalano a Ilfattoquotidiano.it che, per quanto “la strada sia tracciata”, è “difficile” che si arrivi alla stipula di un’intesa già in quella sede. Con ogni probabilità non sarà così per l’ascesa di Invitalia al 60% attraverso il pagamento di 680 milioni di euro ad ArcelorMittal. L’inversione del possesso di quote era in un primo tempo prevista a maggio 2022 ma è poi stata rinviata di due anni. Ora il governo vorrebbe accelerare. L’ex Ilva produce molto meno delle attese, brucia milioni di euro di cassa ogni mese, conta migliaia di operai in cassa integrazione e intanto gli impianti invecchiano sempre di più. Una lenta agonia.

“Saliamo su un treno in corsa che sta deragliando”, ha detto il ministro Urso a Porta a Porta sottolineando che l’impianto “produce tre milioni di tonnellate”, in questo modo “contravvenendo” agli accordi poiché “ne avrebbe dovuti produrre sei”. Parlando di confronto “con tutti”, a partire dall’ad Lucia Morselli, il ministro ha aggiunto: “Nessuno mi dice che chiude ma improvvisamente, da un giorno all’altro, invece arriva la notizia che chiude i cancelli ai lavoratori dell’indotto. Ma abbiamo continuato l’interlocuzione con l’azienda perché siamo persone responsabili”. E sul miliardo previsto dal decreto Aiuti “vogliamo che sia condizionato alla governance”, ribadisce il ministro. Serve “un confronto serrato, siamo nei giorni decisivi, aspetto di completare questo confronto con l’azienda”, aggiunge.

Sulla necessità che la lenta marcia dei due azionisti verso un accordo sfoci presto in una stretta di mano si è espresso anche il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, espressione del socio pubblico: “Gli azionisti di Acciaierie d’Italia dovranno arrivare alla prossima assemblea con una soluzione ai problemi finanziari”, ha sostenuto. Per il futuro dell’ex Ilva, ha aggiunto intervenendo a un forum di Class Cnbc, “i progetti ci sono” ma “spetta a gli azionisti decidere su un progetto di transizione che è molto oneroso con investimenti per 5,5 miliardi di euro nei prossimi 5 anni”. Eppure potrebbe non bastare. Nel primo accordo siglato sul passaggio del controllo dal privato al pubblico, infatti, era previsto che si sarebbe potuto perfezionare solo nel caso in cui gli impianti di Taranto fossero stati liberi da qualsiasi pendenza giudiziaria. Al momento non è così.

La Corte d’Assise di Taranto ha disposto la confisca dell’area a caldo, esecutiva solo in caso di sentenza definitiva in Cassazione, al termine del dibattimento del maxi-processo Ambiente Svenduto. Nelle motivazioni depositate lunedì, dopo un anno e mezzo di attesa, i giudici hanno ribadito che “anche un’eventuale realizzazione completa dei lavori Aia, ritenuti idonei a risolvere i problemi ambientali del siderurgico, non darebbe alcuna garanzia di certezza sul rendimento non inquinante degli impianti stessi, in considerazione del previsto incremento della produzione”. Quindi, a giudizio della Corte, anche la completa attuazione del Piano ambientale “non darebbe alcuna garanzia di superamento delle esigenze di tutela poste a fondamento del provvedimento cautelare”. Una “positiva verifica” si avrà soltanto quando “l’impianto sarà portato alla produzione autorizzata” e gli accertamenti delle autorità “verificheranno che effettivamente l’impianto non è inquinante”.

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