La famiglia Riva e i loro sodali hanno gestito l’ex Ilva di Taranto dal 1995 al 2012 in maniera “disastrosa” e “hanno posto in essere modalità gestionali illegali, anche omettendo di adeguare lo stabilimento siderurgico ai sistemi minimi di ambientalizzazione e sicurezza per ovviare alle problematiche di cui avevano piena consapevolezza sin dal 1995”. Sono le prime frasi che si leggono nelle 3.700 pagine che compongono la motivazione della sentenza con la quale la Corte d’assise di Taranto ha condannato il 31 maggio 2021 la famiglia di industriali lombardi, la dirigenza dell’acciaieria jonica e poi parte della politica locale e regionale: 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola, al responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la “longa manus” dei Riva verso istituzioni e politica, una a 21 anni e 6 mesi all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.

Il quadro delle condanne – Condannato anche l’ex governatore Nichi Vendola che, accusato di concussione aggravata in concorso, ha ricevuto una pena di 3 anni e 6 mesi, mentre per l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni con l’accusa di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica. Stessa pena per per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti ha ricevuto una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva annunciato durante il dibattimento di voler rinunciare alla prescrizione e per il quale la procura aveva chiesto 1 anno. Prescritto fu invece dichiarato il reato di favoreggiamento commesso da Nicola Fratoianni, parlamentare di Sinistra Italiana e all’epoca dei fatti assessore regionale nella giunta Vendola: la corte tuttavia lo ha condannato al pagamento delle spese legali nei confronti dei Verdi, partito di Angelo Bonelli, con cui oggi ha stretto un’alleanza.

“Ci furono danni alla vita” – Secondo quanto si legge nei 15 capitoli che compongono il documento, i Riva già dal loro sbarco a Taranto conoscevano la realtà della fabbrica e “hanno messo così in pericolo – concreto – la vita e la integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento, la vita e l’integrità fisica degli abitanti del quartiere Tamburi, la vita e la integrità fisica dei cittadini di Taranto. Danni alla vita – scrive la corte d’assise presieduta dal giudice Stefania D’Errico e a latere il giudice estensore Fulvia Misserini – e alla integrità fisica che, purtroppo, in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno. Modalità gestionali che sono andate molto oltre quelle meramente industriali, coinvolgendo a vari livelli tutte le autorità, locali e non, investite di poteri autorizzatori e/o di controllo nei confronti dello stabilimento stesso”.

“Controlli pilotati e minacce a chi si ribellava” – La gestione “disastrosa”, si legge nella sentenza, ha “arrecato un gravissimo pericolo per la incolumità-salute pubblica”. Ci sono state condotte “commissive” e “omissive” che hanno portato allo sversamento nell’aria e nell’ambiente di “sostanze nocive” per “la salute umana, animale, vegetale” con la diffusione “nelle aree interne” nonché in quelle “rurali e urbane circostanti”. E l’assenza della registrazione di numerosi superamenti dei limiti di legge, sottolinea la Corte, “non significa che Ilva non inquinasse”. L’interpretazione dei giudici è di segno diametralmente opposto: “Significa invece che Ilva ‘pilotava’ i controlli, che Ilva forniva dati errati o falsi, che Ilva faceva in modo di condizionare gli organi di controllo – già per loro conto privi di mezzi e di risorse -, che Ilva procedeva alla corruzione di consulenti tecnici del pm, che Ilva demansionava, licenziava, minacciava i lavoratori disposti a ‘parlare’ svelando le effettive condizioni di lavoro e le modalità gestionali degli impianti”.

“Interventi ritardati per favorire la produzione” – La Corte d’Assise ha accolto in larga parte la tesi proposta dal pool di magistrati – composto all’epoca dal procuratore Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Raffaele Graziano e Remo Epifani – sostenendo che il pericolo delle emissioni dell’acciaieria era un dato “notorio”. Un aspetto che, ad avviso dei giudici, è facilmente riscontrabile dai protocolli d’intesa tra i Riva e le istituzioni nonché dai provvedimenti amministrativi: “Attestano in maniera inequivocabile come gli interventi di ambientalizzazione degli impianti, pur avvertiti come imprescindibili e urgenti, siano stati a lungo procrastinati, con la costante e ingiustificata prevalenza delle ragioni della produzione rispetto a altri valori pur costituzionalmente fondanti del nostro ordinamento”. Alla famiglia che gestiva Ilva questo risultano fu possibile anche grazie a “connivenze” che “a vari livelli sono emerse e solo in parte risultano giudizialmente accertate”.

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