Uno schiaffo al governo e ai lavoratori. Acciaierie d’Italia non si è presentata all’incontro con il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, i sindacati e gli enti locali per fare il punto sulla situazione in cui versa l’ex Ilva dopo la decisione dell’azienda di bloccare 145 aziende dell’indotto con una pesante ricaduta occupazionale, in particolare a Taranto. Né l’amministratrice delegata Lucia Morselli, espressione del socio privato ArcelorMittal, né il presidente Franco Bernabè, espressione della pubblica Invitalia, hanno partecipato al faccia a faccia. L’assenza ha spinto Fiom, Uilm e Fim a proclamare 4 ore di sciopero nella giornata di lunedì in tutti gli stabilimenti, ma a Taranto si ragiona su un’intera giornata, mentre Urso ha sottolineato come sia arrivato il momento di “riequilibrare la governance” affinché “ci sia una risposta agli impegni presi”. La ministra del Lavoro, Marina Calderone, ha invece assicurato l’impegno ad “attivare un canale di confronto e a studiare immediate soluzioni”.

La decisione di ignorare la convocazione del ministero è solo l’ultima provocazione del management di ArcelorMittal, di fatto al controllo di Acciaierie d’Italia, che da anni ormai – come ricostruito da ilfattoquotidiano.it – si spinge sempre più in là quando ha bisogno di battere cassa. La mossa di fermare i lavori delle aziende dell’indotto e fare orecchie da mercante di fronte al richiamo del governo rientra perfettamente in questo quadro. Da mesi la società lamenta il mancato arrivo del miliardo di euro stanziato dall’esecutivo Draghi per sostenere l’attività dell’acciaieria, in crisi di liquidità e con centinaia di milioni di euro di fatture non pagate verso i fornitori, comprese le bollette di acqua e gas. I soldi arriveranno a destinazione come ha spiegato l’ad di Invitalia, Bernardo Mattarella: “Stiamo interloquendo con il socio privato per applicare al meglio la norma del decreto Aiuti”, ha detto sottolineando che “condivideremo con il governo la soluzione migliore“.

Nell’attesa Acciaierie d’Italia – che si è limitata a un “no comment” dopo aver disertato l’incontro – ha scelto di sospendere per almeno i prossimi due mesi i lavoratori dell’indotto, ben consapevole di aggravare la situazione delle aziende fornitrici che, tra l’altro, avanzano decine di milioni di fatture non pagate. La decisione è stata definita “improvvida” da Urso, all’oscuro della mossa nonostante avesse incontrato Morselli e Bernabè nei giorni precedenti all’invio della lettera alle 145 ditte estromesse dagli impianti. Il ministro si è detto comunque convinto che verranno rispettate le “scadenze” previste negli accordi se si lavora “insieme”. Rassicurazioni insufficienti per i sindacati, ormai certi che ArcelorMittal sia un interlocutore inaffidabile.

Per questo hanno proclamato quattro ore di sciopero in tutti gli impianti e chiedono di estromettere il colosso franco-indiano dalla gestione dell’ex Ilva. Il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, oltre a Usb e Ugl hanno chiesto di “nazionalizzare” l’azienda, mentre il leader della Fiom Michele De Palma parla di una “eutanasia in corso” da fermare: “Abbiamo bisogno di uno che decide e col quale negoziare perché, ad oggi, ogni volta arriviamo sulla scorta dell’emergenza”. Lo Stato, è la richiesta dei metalmeccanici della Cgil, “faccia la propria parte e si assuma le proprie responsabilità”, perché ad oggi l’ex Ilva “non è governata” e ArcelorMittal “non ha avuto neanche il coraggio di presentarsi” all’incontro. “Non c’è un confronto né a livello di stabilimento né a livello nazionale”, accusa De Palma.

Dal segretario della Fim Roberto Benaglia arriva la richiesta al governo di “alzare la testa” e “rinegoziare tutto il rapporto con ArcelorMittal”, che dovrebbe scendere al 40% del capitale nel 2024. La situazione è così drammatica che anche Confindustria ha finito per esporsi sottolineando di “non aver condiviso il metodo” della sospensione dell’attività per le 145 aziende e rimarcando come l’anticipo dell’ingresso dello Stato al 60% è vista come una soluzione positiva: “Abbiamo la necessità di risolvere i problemi, il territorio e le aziende dell’indotto non possono più sopportare una situazione simile”, ha detto il presidente degli industriali tarantini Salvatore Toma. Acciaierie d’Italia quest’anno avrebbe dovuto produrre 5,7 milioni di tonnellate d’acciaio, ma secondo i sindacati si fermerà a poco più di tre. Intanto si contano 2.500 persone in cassa integrazione, oltre ai 1.700 sotto l’ombrello di Ilva in amministrazione straordinaria. E a Taranto sono al lavoro solo due altoforni, con buona parte degli impianti di finitura fermi. L’insostenibilità della situazione è tutta qui.

Twitter: @andtundo

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