“Lo sai con chi stai parlando? Io sono Akrem… figlio di Beya… il più grande trafficante tra Tunisi e l’Italia”. E ancora: “Il capo, colui che comanda gli italiani”. In due distinte conversazioni a ottobre e dicembre del 2019 Akrem Toumi, detto “il cammello”, cercava di spiegare quale fosse il suo ruolo. Era lui infatti ad avere il comando della presunta organizzazione criminale dedita al traffico di migranti e al contrabbando di sigarette tra la Tunisia e la Sicilia. Ma non era solo: gestiva tutto grazie a una rete di persone in Tunisia, Sicilia e Francia. Si serviva di schede sim e di profili falsi su Facebook per mantenere le comunicazioni e non farsi intercettare. Soprattutto organizzava i trasferimenti con l’aiuto del suo “socio” – come lo definisce Toumi in un’intercettazione – Giovanni Bartoluccio.

I trasferimenti portavano lauti guadagni: “Da quando sono uscito dal carcere ho guadagnato 175 mila euro”, raccontava lui in un’altra conversazione captata dalla Squadra Mobile di Caltanissetta che dopo uno di questi viaggi andato male, quando nel 2018 l’imbarcazione si incagliò nel porto di Gela, ha iniziato ad indagare su un gruppo di Niscemi. Dopo quattro anni di inchiesta coordinata dalla procura di Caltanissetta sono state arrestate 18 persone, di cui sette italiani e undici tunisini. Secondo la ricostruzione dei pubblici ministeri, Toumi era il basista in Sicilia di quella che “a tutti gli effetti può essere considerata un’associazione a delinquere di carattere transnazionale”. Migranti provenienti dalla Tunisia, condotti in Italia utilizzando barche dotate di potenti motori e della strumentazione satellitare necessaria per affrontare il viaggio, con scafisti che approdavano sulla costa gelese e quella ragusana.

L’organizzazione – stando alla tesi dell’accusa – faceva capo a Toumi e alla coniuge Sarra Khaterchi, entrambi abitanti a Niscemi, grazie ad una rete di rapporti intessuta dal “cammello”, compreso un membro delle forze dell’ordine, che gestivano le coste tunisine. Dalle indagini è anche emerso che, per la gestione dell’attività, il gruppo di Niscemi che faceva capo a Toumi e Bartoluccio si era rivolto, grazie all’intercessione di Gaetano Vigna, al clan mafioso di Gela degli Emanuello per avere un aiuto economico e rintracciare le imbarcazioni con le quali fare le traversate. I niscemesi si erano rivolti a Emanuele Curvà ed Enzo Trubìa, considerati membri del clan di Gela, e in un’intercettazione anche Trubia, in effetti, si presentava: “I appartenenti a Emmanuello sugno, perciò, i comu sugnu vaiu dà, l’amici…”. Mentre Toumi, parlando col cugino Taoufik, diceva con chiarezza: “Guarda che la mafia è con me… io ho la mafia con me”. L’aiuto del clan di Gela nell’acquisto delle imbarcazioni non si concretizzava ma grazie alla mediazione di Cruvà e Trubia (che non sono indagati) avveniva l’acquisto di 250 pecore al costo di 3 mila euro, un modo per Toumi di ricompensare Bartoluccio e Vigna, per l’attività criminale del trasbordo migranti da una costa all’altra.

Ma l’attività maggiore del gruppo che faceva capo a Toumi iniziava in Tunisia. Da quel lato del mare i migranti facevano debiti o vendevano tutto quello che avevano, terreni o case, per potere arrivare in Italia. Sono loro “gli agnelli”, come li definisce Toumi. Quelli che portano i soldi: 2-3 mila euro a persona per un guadagno di 60mila euro a traversata. Venivano reperiti da uomini di Toumi in Tunisia, portati ad Al Haoaria, una località di mare dove Toumi aveva alcune abitazioni. Lì poteva fare stare i migranti per giorni in attesa di organizzare il viaggio. Ma non senza la preoccupazione che si ribellassero, stipati in quelle abitazioni, in attesa che le imbarcazioni venissero riparate e arrivassero gli scafisti dalla Francia. Non a caso, Bartoluccio a un certo punto si affretta a trovare un’imbarcazione. Si vuole evitare una ribellione in Tunisia e cerca di coinvolgere i mafiosi gelesi, che però danno forfait.

Sarà Bartoluccio stesso – secondo quanto ricostruito dalle indagini – a comprare un gommone per la traversata costato 13mila euro, mentre dall’altra parte del mare, in Sicilia, era sempre lui a fornire la base logistica, ovvero la sua azienda agricola in contrada Priolo a Niscemi, dove aveva anche assunto Toumi, in modo tale che lì potesse vivere agli arresti domiciliari. “Il cammello” infatti era stato già accusato di sfruttamento dell’immigrazione clandestina ed era ai domiciliari assieme alla moglie, anche lei impegnata, come altri parenti – fratelli, cugini e zii – nell’organizzazione delle fruttuose traversate. E proprio mentre gli agenti della Mobile indagavano è arrivata la condanna definitiva per Toumi, arrestato assieme alla moglie il 27 gennaio dello scorso anno. Un arresto che era atteso e per questo si stava organizzando per scappare in Francia mentre il suo “socio” – secondo quanto ricostruito dagli investigatori – restava spiazzato: “Ora comu n’amma cumpurtari nuatri?”. Come dobbiamo comportarci, si chiedeva Bartoluccio. Ora in 18 sono accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con l’aggravante di “avere esposto a serio pericolo di vita i migranti e di averli sottoposti a un trattamento inumano e degradante per trarre un profitto”.

Articolo Successivo

Massoneria, la relazione dell’Antimafia: “La legge scritta dopo la scoperta della P2 è inadeguata, servono nuove norme”

next