Il decreto legge sulla vicenda Autostrade che è stato approvato dal Parlamento non avrebbe dovuto limitarsi a regolare (malissimo) la “vertenza” Stato/Autostrade per l’Italia (Aspi) che ha consentito ai Benetton di cadere in piedi. L’uscita di scena dei Benetton è stata infatti agevolata da una ricca “buonuscita” di circa 8 miliardi di euro, comprensiva di uno sconto sul prezzo – previsto inizialmente tra 8 e 10 miliardi – proprio per i potenziali danni e le cause risarcitorie legate al crollo del ponte Morandi che si è accollato lo Stato.

Quel decreto doveva essere invece l’occasione per scrivere una nuova ed efficiente regolazione pubblica per tutti i 20 concessionari che gestiscono (come vogliono) i seimila km della rete autostradale italiana.

Con il costosissimo decreto si pensava che si sarebbe passati da una rendita privata ad una pubblica, che alla fine avrebbe spostato gli extra profitti di Aspi alle casse del ministero dell’Economia attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. Sembrava che il prezzo da pagare per non aver fatto una riforma delle concessioni sarebbe stato “solo” quello di garantire la concessione fino al 2038 al subentrante controllato dalla Cdp al 51%, con la proroga automatica della stessa e il mantenimento della possibilità di “spennare” con carissimi pedaggi automobilisti e camionisti.

Dal maggio scorso Aspi è passata definitivamente di mano. È stata infatti finalizzata a prezzi di mercato l’acquisizione della partecipazione dell’88,06% di Autostrade per l’Italia detenuta da Atlantia (Benetton) da parte di Holding Reti Autostradali S.p.A. (HRA), veicolo di investimento partecipato da Cdp Equity (51%), Blackstone Infrastructure Partners (24,5%) e dai fondi gestiti da Macquarie Asset Management (24,5%).

Il passaggio dalla proprietà privata dei Benetton a quella pubblica del ministero dell’Economia ha portato con sé un aumento dell’1,6% delle tariffe dei quasi 3mila km di rete Aspi da lasciare in dote ai nuovi gestori. Aumento che nemmeno i Benetton erano riusciti a farsi autorizzare. Aumento ingiustificato perché i costi di gestione non sono cresciuti, gli ammortamenti sono conclusi da un bel po’ e gli addetti (casellanti) sono scomparsi. I pedaggi, semmai, avrebbero dovuto essere ridotti.

Qualche giorno fa dal quotidiano Domani è arrivata una nuova incredibile rivelazione: anche questa volta i profitti non andranno per la manutenzione, la sicurezza della rete e lo sviluppo tecnologico. I patti parasociali portati alla luce dal quotidiano dimostrano che il soggetto pubblico (il ministero dell’Economia) attraverso Cdp non controlla nulla, anzi sono i due fondi d’investimento che dettano le regole. Come quella per cui ogni euro di utile dovrà diventare un euro di dividendo. E infatti, il 20 luglio scorso l’assemblea degli azionisti ha deciso di intascarsi l’intero utile netto del 2021 di 682 milioni.

Eppure in questi giorni Aspi si accredita come “rete del futuro che dialoga con il territorio”. A Bologna qualche giorno fa si è spinta ad affermare di essere pronta per un riassetto a tutto tondo della mobilità autostradale e di voler portare avanti la rigenerazione dei tracciati principali, in questo caso quelli emiliano-romagnoli, in un’ottica di decarbonizzazione e secondo i principi della sostenibilità. Principi già astratti in quanto tali e difficili da coniugare con una politica dei dividendi stringente come quella contenuta nei patti parasociali.

Insomma, senza una riforma delle concessioni stiamo passando dalla padella alla brace. Anche gli altri concessionari autostradali che già attualmente non subiscono nessun indirizzo dal concedente pubblico (ministero dei Trasporti) andranno avanti con gli extraprofitti degli scorsi anni (esclusi i due del Covid-19) e tra questi, c’è da scommettere, ci sarà anche la concessionaria pubblica Anas che gestisce 939 km di autostrade e 335 km di raccordi autostradali.

La parte recitata dello Stato su questo tema è sempre la stessa: prima i Benetton, ora i fondi investimento danno la linea.

Scippo di Stato

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