Sembrava difficile fare peggio dello stato attuale, i partiti sono riusciti a deludere ogni aspettativa. La diciannovesima legislatura avrà meno donne in Parlamento di quella precedente: dal 35% del 2018 infatti, si è passati al 31 per cento di donne parlamentari sul totale delle elette. Ovvero 186 contro i 414 colleghi maschi. E, per la prima volta in 20 anni, la percentuale decresce invece che aumentare: se dal 2001 si erano registrati graduali incrementi ogni volta che si eleggevano nuove Camere, quest’anno la tendenza è all’inverso e si scende anche sotto la media Ue (32,8%).

I numeri sono chiari e impietosi per la classe politica. Come ricorda l’agenzia Ansa, nel 2001, anno della vittoria della Casa delle libertà, le donne elette furono il 10,7 per cento del totale. Da quel momento in poi però, la crescita fu costante: così nel 2006 furono il 15,94%, nel 2008 il 19,63%, nel 2013 il 30,11% e nel 2018 il 35%. Fino ad arrivare alla situazione paradossale del 2022: l’Italia si prepara ad avere la prima presidente del Consiglio donna e lo fa con un Parlamento che, invece di migliorare nella parità di genere, peggiora.

Se si guardano le performance dei singoli partiti, gli unici fuori dal coro sono Azione e Movimento 5 stelle: il partito di Carlo Calenda ha eletto il 46% di donne (14 su 30 parlamentari), mentre il M5s il 45% (35 su un totale di 79 parlamentari). Male il Partito democratico con solo il 31% di elette (36 su 119) e Alleanza Verdi-Sinistra (30%), due partiti che sulla parità di genere e i diritti delle donne hanno fatto campagna elettorale. “Abbiamo un problema”, ha scritto la deputata dem Chiara Gribaudo su Twitter. “Dobbiamo cambiare radicalmente la cultura patriarcale che ancora sopravvive nel Pd”. Non che le cose vadano meglio a destra. Bloccato al 30 per cento c’è Forza Italia, ma pure Fratelli d’Italia, l’unico partito che può vantare una leadership femminile. Peggio di tutti, infine, fa il Carroccio che tocca quota 29%.

I grossi problemi di rappresentanza femminile nelle stanze del potere politico italiano sono ormai noti. E a peggiorare la situazione ci si è messa una legge elettorale, il Rosatellum, che seppur formalmente introduca le quote di genere, concede alcuni espedienti capaci di annullarne qualsiasi effetto. Le liste infatti, devono essere formate seguendo l’alternanza di genere. Ma questo non per forza consente alle donne di avere pari diritti di ingresso in Parlamento: essendo autorizzate le pluricandidature, basta candidare la stessa donna in più collegi e, se viene eletta in uno di questi, potrà lasciare il posto ai candidati uomini dietro di lei. Ma non c’è solo il sistema di voto a giocare contro: le dirigenze dei partiti o, più genericamente, i vertici continuano a essere nella maggior parte dei casi maschili. Non sorprende quindi che, in un Parlamento con meno posti a disposizione, ad andare avanti siano stati ancora loro: i candidati uomini.

Al di là di promesse e proclami, quindi, è molto chiaro a chi bisogna chiedere contro dell’arretramento: la colpa è, ancora una volta, tutta dei partiti. Lo ha ribadito la sociologa Chiara Saraceno su Repubblica: “L’uguaglianza di genere nell’accesso alle responsabilità politiche continua a essere lontana. Non si può dire che sia colpa degli elettori che preferiscono scegliere uomini, dato che l’orrendo sistema elettorale in vigore lascia in mano ai partiti ogni decisione su chi ha più o meno chance di passare. Evidentemente tutti i partiti, chi più, chi meno, incluso quello di Meloni, hanno privilegiato le candidature maschili”. E, di nuovo, non c’è alcun alibi che regga.

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