Le incommentabili frasi rivolte ad un personaggio televisivo che sarebbe affetto da depressione (un ‘pazzo, matto, malato’ che avrebbe obbligato gli altri partecipanti della trasmissione a ‘sentire le sue cazzate’) risultano odiose non tanto per il loro contenuto derisorio, visto anche il contesto nel quale sono state espresse, quanto perché poggiano su luoghi comuni radicati, su un sentire comune assai diffuso che ancora si rifiuta di considerare la depressione per quello che è, cioè un gorgo nero che inghiotte centina e centinaia di vite in tutto il mondo, preferendo degradarla a capriccio umano superabile grazie alla ‘forza di volontà’.

‘Da solo ce la puoi fare’, ‘aiutati’, ‘sforzati’, ‘pensa positivo’: queste sono solo alcune delle frasi che sovente vengono utilizzate per approcciare il melanconico, o depresso grave, mentre attraversa l’inferno di una patologia micidiale dagli esiti molte volte letali.

Chi, nel corso della sua esistenza, non ha mai conosciuto un momento nel quale le passioni, l’entusiasmo, l’investimento nelle piccole e grandi cose quotidiane vengono meno opacizzando la vita stessa? Parliamo in questi casi della cosiddetta depressione ‘minore’, evento spesso legato ad un distacco, ad una perdita, un allontanamento, una delusione cocente. La depressione, se non trattata, può assumere forme gravi, tali di invalidare tutta la vita di un individuo. La depressione maggiore è invece una condizione strutturale dell’essere umano, un ombra che può impadronirsi di ogni aspetto dell’esistenza, facilitata e slatentizzata, ma non causata dai suddetti movimenti.

Depressione reattiva, depressione maggiore, disturbo bipolare: etichette che stanno ad indicare come il male oscuro non sia un elemento immobile ma, al contrario, una patologia che lavora nel sottosuolo. Come il moto delle onde marine che ripetutamente ed in maniera regolare si infrangono sulla battigia per poi ritrarsi per fare spazio ad altre onde ancora. Onde che però sono nere, oleose, colme di pece e muschio viscoso. Ed ogni volta che riescono ad arrivare a lambire la sabbia, se ne mangiano un po’ corrodendo l’animo del depresso sino a degradarlo ad un’esistenza meccanica.

Questo fa la depressione nella sua forma grave: divora il tempo, lo rende vuoto e ripetitivo. Senza senso.

Io non parlo basandomi su un mero sapere accademico necessario alla mia formazione: io ho attraversato personalmente il male oscuro, conseguenza drammatica di un rapporto clinico devastante e deragliato, che ha lasciato in me cicatrici indelebili, sulle quali sono però riuscito, da analista, a sviluppare un’attenzione costante su tale tema. Quando il buio si impadronì di me, chi doveva sostenermi, si spaventò e, inadatto a gestire la pulsione di morte, fuggì mettendomi alla porta prima che io cadessi a terra. Ben conoscendo le conseguenze che questo su di me avrebbe avuto.

Quando sentite formule quali ‘sei una lagna, tirati su da solo’, immaginate l’effetto che hanno su un individuo che cammina sul ciglio di un cratere, buio e profondo. Addentrandosi nel quale, convinto di essere giunto alla fine, scorge le aperture di lunghi ed infinti cunicoli oscuri senza fine. La mattina dopo, la scena riparte da capo. Ogni giorno, per tutta la vita. Questa è la depressione maggiore contro la quale i clinici ingaggiano, ogni giorno, battaglie corpo a corpo e che conduce ad un senso di solitudine abissale.

Come ha insegnato EF Wallace, anch’esso caduto nel buio, la solitudine generata dal muro depressivo si può incrinare riuscendo a mantenere vivi dei contatti che risultano essere salvifici ogni qualvolta il desiderio di farla finita si palesa come esito irrimediabile. Ed il fatto stesso che chi sta per farla finita senta la vicinanza di qualcuno, fisicamente, via etere, via lettera, significa per lui neutralizzare per poco la portata terrificante di questa malattia. Significa riuscire a spostare la notte un po’ più in là.

La solitudine del melanconico è radicale, spesso un avanzare fangoso nell’oblio e nel silenzio. La solitudine del depresso grave è figlia di una vita faticosa, un tentativo continuo di commerciare col mondo per non escluso definitivamente. Il dramma di tanti ammalati sta nel rendersi conti che sono stati soli sino alla fine dei loro giorni, arrivati i quali manca anche una sola voce, una sola persona alla quale poter dire di un’esistenza stremata.

Chi sta vicino al depresso, clinico o familiare che sia, deve sapere non vacillare, mai.

Garantire una presenza al di là di ogni possibile vacillamento. Quando mi rimisi in piedi chiesi conto al mio vecchio psicoterapeuta di una condotta terapeutica che mi condusse verso il buio. Questo in omaggio ad una massima imprescindibile: “L’analista deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. Infine bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione”. La sua risposta fu una email che conteneva la minaccia di agire a vie legali nei mie confronti, se ancora avessi osato rompere con le mie richieste di chiarimenti. Fu lì che capì che per sorreggere un soggetto melanconico serve rigore, etica, professionalità, umanità e disponibilità. Un apparato umano e clinico che sappia avvitare il proprio posto, facendo a meno delle tremende e banali formulette contro le quali il depresso deve scontrarsi quotidianamente.

Quando la depressione sfocia nel suo esito letale (sappiamo che ha magna pars nel numero dei 4000 suicidi che avvengono ogni anno in Italia) chi si chiama fuori non è felice. Non gode di quell’ultimo dolce presagio o senso di liberazione proprio di chi, magari dopo una lunga malattia, è riuscito ad ottenere l’eutanasia. Non ha il sorriso del malato terminale che ha la certezza che il suo calvario sta per finire, concedendogli solo per un attimo, un sollievo dal dolore.

No, per chi ha vissuto nell’oblio melanconico e non è riuscito in una vita intera a creare relazioni, legami, affetti, gli ultimi giorni sono forse ancor più pesanti da sopportare. Tanti se ne son andati così, in silenzio, senza lasciare traccia.

Per tutti questo motivi, e altri ancora sui quali non mi dilungo per non dare forma ad un articolo colmo di clinica e di dati, è necessario avviare un processo culturale che da un lato tolga quella pietra pesante che fa della depressione il grande rimosso della nostra epoca, dall’altro porti ad una sempre maggior consapevolezza che il male oscuro non è legato ad una mancanza di volontà, a pigrizia, e nemmeno è un capriccio che produce ciò che alle orecchie di molti suona come un lamento fine a sé stesso.

La depressione uccide.

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