“Insegno Italiano all’università e faccio l’accompagnatore turistico a Kyoto. Qui il costo della vita è alto ma i servizi funzionano: ho trovato una città a misura d’uomo con un forte senso di comunità”. Edoardo Pedoja, 47 anni, romano, la prima volta che ha messo piede in Giappone è stato nel 2004. “Kyoto mi ha affascinato fin da subito”. Grazie ad una borsa di studio dell’Università Sapienza parte una seconda volta e decide fermarsi: ora ha due figli, una moglie e oltre all’insegnante ha deciso di condividere la sua passione per l’antica capitale giapponese con i turisti che vogliono visitarla.

“In Giappone si pagano molte tasse e Kyoto non fa eccezione – dichiara a Ilfattoquotidiano.it –. Per esempio si paga l’Imu sulla prima casa. Noi abbiamo comprato la terra dove è costruita la nostra casa ma ogni anno pago un corrispettivo al governo giapponese. Inoltre, la sanità è a pagamento e l’assicurazione copre il 66% dei costi. Il restante lo paghi quando vai in ospedale”. E negli anni il potere di acquisto è diminuito. “Quando arrivai l’Iva era al 4% ora è al 10%. Rispetto l’Europa è sempre poco, certo, ma l’aumento si sente. D’altro canto, però, i servizi sono molto buoni: i mezzi arrivano in orario, c’è pulizia, c’è molta attenzione alla comunità e al rispetto delle regole”.

Edoardo, con una laurea in Studi storico-religiosi e una in Lingua a cultura giapponese, nella terra dei samurai ha sempre insegnato Italiano, prima in istituti privati, poi presso varie università. “Avevo approcciato l’insegnamento già a Roma, presso la scuola per stranieri Cli Dante Alighieri – racconta –. Attualmente lavoro in alcune università, sempre a contratto. E dal 2018 ho iniziato con un progetto di guida turistica e divulgazione, sia in internet che dal vivo; volevo, nel mio piccolo, far conoscere questa magnifica città ad altri italiani”. Nasce così Diario di un papà in Giappone su Youtube e su altri social, dove Edoardo racconta luoghi, storia e pratiche della società giapponese.

“Uno degli stereotipi giapponesi è il formalismo nei rapporti interpersonali, e in realtà è così perché questa è una società indiretta dove tutto scorre al dì sotto di un velo di convenzioni sociali molto radicate. Ma può capitare, come è accaduto a me, di entrare anche nella ritualità che solitamente non è riservata a quelli che loro considerano stranieri”. Per i giapponesi è straniero tutto ciò che non è giapponese. “In questo senso mi reputo un fortunato perché ho avuto la volontà, e per me anche la fortuna, di entrare nel mondo tradizionale giapponese”. Come? Il secondo anno a Kyoto un gestore di un bar, con cui nel tempo libero discuteva di scintoismo, gli propone di partecipare ad un matsuri di quartiere. Una festa tradizionale in cui si celebrano le divinità giapponesi con danze, spettacoli e processioni. “Sono l’unico italiano a Kyoto, e forse anche in Giappone, a portare da 15 anni i mikoshi, dei santuari portatili che vengono trasportati in spalla durante i matsuri. Sono membro del gruppo più antico che partecipa al Gion Matsuri, una delle tre feste più famose del Giappone”. Quando ne parla, Edoardo non nasconde l’emozione di questa appartenenza. “Lo sento come parte della mia integrazione, ne sono onorato. Una volta mi dissero: tu per noi non sei uno straniero, sei Edoardo, sei uno di noi”.

Il Giappone è stato uno dei quei Paesi che ha centellinato le riaperture post pandemia passando dai quasi 5 milioni di ingressi annuali per covid, agli attuali 50mila. “Il Giappone è un’isola e i giapponesi sono isolani quindi per loro è semplice chiudersi. E chiusi stanno comunque bene dal loro punto di vista. Anzi, rispetto allo zero direi che questa è una grande novità”. L’11 ottobre è la data fissata dal premier Kishida e dal governo per togliere la richiesta del visto ai turisti stranieri e cessare il blocco turistico. “Durante il covid, quando è stato messo l’obbligo della mascherina, non ci sono state proteste perché i giapponesi sono abituati a mettersela anche per altre situazioni. Qui il tema della comunità è molto forte: danneggiare gli altri suscita senso di colpa”.

Ritornare stabilmente in Italia rimane un’idea abbastanza lontana. “Sicuramente nel prossimo futuro la farò vedere più spesso ai miei figli. Mia moglie è laureata in Francese e ha una visione molto internazionale, non la preoccuperebbe l’idea di vivere all’estero. Magari quando i miei figli saranno cresciuti, in vecchiaia, non mi dispiacerebbe l’idea di vivere in un borgo italiano, non in una grande città. Però sento un forte legame con Kyoto e penso che alla fine il mio percorso terminerà qui”.

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“Partita per gli Usa sette anni fa, ora lavoro nel cinema: qui bastano 2mila dollari per avviare un lungometraggio, in Italia almeno 40mila”

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