Se per molto tempo il tema dei suicidi nelle forze dell’ordine è stato un vero e proprio tabù, l’articolo di Stefania Limiti pubblicato sabato scorso da Il Fatto Quotidiano, “Il trend inverso dei ‘suicidi in divisa’: calano nel Paese, aumentano tra le forze dell’ordine” dimostra che il fenomeno comincia a suscitare un sempre maggiore interesse nella carta stampata.

Dopo i 51 “eventi suicidiari” del 2020 e i 57 casi del 2021, anche i dati di quest’anno appaiono preoccupanti: in 9 mesi sono già 50 i cittadini in uniforme che si sono tolti la vita. Così, mentre l’Italia, tra i Paesi Ocse, “registra uno dei livelli più bassi di mortalità per suicidio” – sottolinea la Limiti – il numero dei “suicidi in divisa” ha invece un trend allarmante.

Una seria riflessione sul problema non può prescindere dalla considerazione che ambienti lavorativi fortemente gerarchizzati, nei quali vigono regole molto rigide e talvolta anacronistiche, favoriscono per natura dinamiche tossiche che possono rivelarsi molto dannose per la psiche dei lavoratori. In caserma, anche una parola fuori luogo di un superiore gerarchico può essere deleteria. Per questo, nel mondo militare sarà prezioso il contributo dei nuovi sindacati, che diventeranno un’efficace valvola di sfogo del malcontento e delle frustrazioni del personale.

I sindacati potranno contrastare i comportamenti prevaricatori e stimolare il dibattito sul benessere organizzativo, puntando soprattutto su una specifica e adeguata formazione dei dirigenti, che dovrà essere costante e progressiva. Sotto l’uniforme c’è prima di tutto una persona con una dignità da tutelare.

Peraltro fare tutto il possibile per creare un clima lavorativo civile, riducendo le prepotenze, le discriminazioni e gli abusi, non può che avere effetti positivi sull’efficienza dei reparti. È evidente che le umiliazioni sul luogo di lavoro non provocano danni solo alle vittime, ma anche al buon andamento degli uffici. “Nessuno è disposto a fare i salti mortali per un’azienda che ti tratta come una pezza da piedi”, scrive Robert I. Sutton ne Il metodo antistronzi (Elliot, 2007).

Sulla questione dei suicidi in generale, è utile rispolverare l’opera di Émile Durkheim. Secondo il fondatore della scuola sociologica francese, il suicidio va considerato come un problema di tutti. Si tratta certo di una scelta privata, ma le cause interpellano la responsabilità collettiva. Perché quel poliziotto si è tolto la vita? Perché quell’operaio ha voluto farla finita? Cosa può fare la comunità sul piano della prevenzione?

Mi viene allora in mente anche un altro problema gravemente trascurato, quello dei suicidi in carcere, che secondo il dossier realizzato dall’associazione Antigone sono stati ben 59 nei primi otto mesi del 2022. Spesso si tratta di giovani detenuti che avrebbero avuto tutta una vita davanti per riscattarsi e inserirsi nella società e nel mondo del lavoro. Queste morti dovrebbero stimolare non solo interrogativi sul funzionamento del nostro sistema carcerario, ma anche sulla possibilità di dare maggiore spazio alle misure alternative alla detenzione e di privilegiare il modello della giustizia riparativa.

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