Si può perdere, in democrazia ci sta. Fa parte delle regole del gioco. Le sconfitte sono preziose, a volte più delle vittorie, perché obbligano, o almeno dovrebbero farlo, a riflettere, a riavvolgere il nastro all’indietro per rivedere una ad una le scelte che si sono fatte, non nei trenta giorni di campagna elettorale, ma nei mesi e negli anni.

Questo vale per le sconfitte normali. Quella che ha subito il Pd non è però una sconfitta normale. È un disastro epocale. Il Pd ha cancellato un patrimonio di consenso che reggeva dalla nascita della Repubblica. Hanno perso in maniera indecorosa anche nelle ultime “regioni rosse”, in Toscana e in Emilia Romagna, con distacchi spesso umilianti. Consegnando ai neofascisti le Regioni che hanno pagato uno dei tributi di sangue più alti nella lotta di Liberazione, regioni che sulle loro mappe portano incisi i nomi (ne cito solo due) di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto. Per questo si può usare una sola parola: vergogna.

Un disastro di proporzioni tali non impone una riflessione, ma una totale rifondazione di un soggetto politico che dia rappresentanza a quella parte di Paese che non ha nella pancia il “fascismo eterno”, come lo chiamava Umberto Eco. C’è una parte di Paese che da decenni non ha più una casa, che ha votato il Pd turandosi il naso, vomitando pur di non far vincere la destra neofascista. Questo ha fatto pensare i dirigenti del Pd, che avrebbero potuto contare in eterno su un voto basato sull’accettazione del meno peggio. Ma i conati adesso hanno finito per soffocare gli elettori. Non essere più rappresentati da nessuno ha spinto le persone a restare a casa o ad annullare le schede. Perché il punto centrale è la rappresentanza. In una democrazia chi viene eletto deve rappresentare i bisogni, le speranze e la visione del mondo di chi lo vota.

Il Pd ha scelto di rappresentare sempre di più i ceti benestanti, le imprese, i professionisti ricchi e ha selezionato una classe dirigente arrogante, spocchiosa e anche, in alcuni casi, scarsamente preparata, che ne è espressione. Ha scelto di non rappresentare più il lavoro dipendente, la classe operaia (si può dire, non è una parolaccia). Ha scelto di stare con Confindustria piuttosto che con i sindacati. Sono scelte strategiche, consolidate negli anni. Enrico Letta non solo non si è dimesso, come sarebbe stato dopo il disastro suo preciso dovere, ma in conferenza stampa ha provato ad addossare la responsabilità della vittoria dei neofascisti, a Conte e ai Cinquestelle, che sono stati gli unici a fronteggiare la valanga nera soprattutto al sud.

La colpa di Conte sarebbe aver fatto cadere il governo Draghi. Non lo ha sfiorato l’idea che, visto anche i risultati elettorali che premiano FdI e 5S, forse la gente, di quel governo, ne aveva le scatole piene.

La sfida che si impone è un soggetto politico che dia rappresentanza a quella parte di Paese che sta pagando pesantemente anni di crisi drammatica; un soggetto credibile che punti sulla giustizia sociale, sulla sicurezza sul lavoro, che metta in campo strumenti efficaci per contrastare l’evasione fiscale che riduca le tasse sul lavoro dipendente. Che si occupi di una sanità pubblica che vede scappare medici e infermieri malpagati e costretti a turni infami, che affronti la tragedia dei salati degli italiani che sono i più bassi d’Europa. Un soggetto politico che chieda di investire sulla ricerca, sulla formazione dei giovani costretti a scappare dall’Italia per trovare un lavoro adeguato alle proprie qualità senza essere stritolati dal clientelismo e dal nepotismo feudale, che sia capace di ascoltare la voce della gente – non solo di quella che vive in Ztl, ma anche quella delle periferie e delle campagne.

Non serve un congresso che dia una rimescolata alle carte delle correnti interne di questa Democrazia cristiana malamente ripulita, ma assai più spocchiosa e arrogante della vecchia “balena bianca”, che si chiama Partito democratico. Serve che questo partito si sciolga e si fondi un soggetto chiaro, con precisi riferimenti valoriali, che finisca una volta per tutte il “ma anche…”. Che decida da che parte stare, chi rappresentare e quali interessi difendere. Questo riporta la gente a fare politica e soprattutto la riporta a votare. Si riparte da questo, non dalle camicie con le cifre ricamate e dalle giacchette striminzite.

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