Credo poco al caso, do sempre il giusto valore alle parole delle persone, specie quando si tratta di politici in campagna elettorale che si stanno rivolgendo ai loro elettori. Per questo ritengo che la risposta data da Enrico Letta (‘viva le devianze’) e dal mondo della ‘sinistra virtuale’ alle parole di Giorgia Meloni, ‘rea’ di aver stilato un elenco – poi ritrattato – di ‘devianze giovanili’ sulle quali intervenire, sia una replica miope e riduttiva. Serve ben altro.

Ma andiamo con ordine. Preconizzando una società futura tonica e virtuosa, Giorgia Meloni avrebbe annoverato tra le devianze sulle quali intervenire gli abusi di alcol, di droghe, gli atti di vandalismo, le ludopatie e – ahinoi – i disturbi del comportamento alimentare. Nel tempo pandemico noi, che di questo ci occupiamo mane e sera, abbiamo assistito ad una esplosione di sintomi quali depressioni, stati di angoscia, anoressie-bulimie, ludopatie e atti di autolesionismo. Il sintomo portato da un soggetto è sempre un elemento che racchiude una richiesta di aiuto, un appello lanciato all’altro per essere visto, scorto, sostenuto. Tra tutte queste forme di sofferenza i disturbi alimentari costituiscono la punta estrema di una modalità distruttiva di ridurre un soggetto a puro corpo, essiccandolo o gonfiandolo con le abbuffate tipiche della bulimia.

Il sintomo necessita di un ascolto, di una interpretazione, preludio alla codificazione di una domanda che poi deve essere portata ad un livello di linguaggio tale da poter finalmente essere ascoltata, letta ed interpretata. Vulgo: per curare una anoressia ci vuole un duro e costante lavoro d’équipe, proprio perché l’individuo certamente ‘devia’ dai canoni di espressione codificati, ma ciò è dovuto al fatto che le sue parole restano intrappolate in un cortocircuito a causa del quale si delega il corpo ad unico organo di espressione, finendo in tal modo nella trappola perfetta dei Dca.

Detto questo, ripeto, siamo in campagna elettorale e Giorgia Meloni parla agli italiani. La prestigiosa rivista online State of Mind, con la quale anche io ho collaborato proprio sul tema dei Dca, titola in un articolo del 2016: I comportamenti devianti durante l’adolescenza comprendono l’uso di sostanze, la guida spericolata, i disturbi alimentari e la delinquenza. Dubito che l’onorevole Meloni ne abbia condiviso il taglio clinico. Più probabile leggere in questa dichiarazione, poi rettificata ad onor del vero, la ricerca forse inconsapevole di una saldatura con un mondo che di tutto questo disagio diffuso non vuole sentire parlare, che dell’ascolto dell’altro fa una pietra di scarto. Una opinione pubblica assai più diffusa di quello che si crede, che del malessere del mondo adolescenziale, e non solo, non intende occuparsi perché tende a ridurre il tutto ad una semplice mancanza di volontà in un’ottica tesa ad una brutale normalizzazione (‘Se vuoi, puoi!’).

Sì, perché a fronte di decine e decine di famiglie spezzate che portano nei nostri studi figli e figlie anoressiche, depresse, dipendenti da alcool e da sostanze con una sincera e gravosa richiesta di aiuto dopo che le fondamenta delle loro case sono state duramente mese alla prova, noi ascoltiamo anche altro. Quante volte ho sentito frasi quali: “Dottore, ma se si sforzasse nostra figlia potrebbe mangiare, è che non ne ha voglia!”; “Sa dottore, quando io ero ragazzo, due sberle e via, altro che l’alcolismo”; “Mio figlio è gay, lei deve aiutarci a ‘guarirlo’ perché una roba del genere la mia famiglia non la può sopportare”. Insomma, esiste un mondo che non vuole o non può capire che il desiderio inconscio di sparire, di chiamarsi fuori, di farsi del male tagliando il proprio corpo è spesso sostenuto una volontà assai più forte di quella di vivere.

L’onorevole Meloni, forse scivolando sul linguaggio, ci dà però l’opportunità di riflettere sulla possibilità da sempre esistente di un inquietante orizzonte monodirezionale nel quale differire dall’omologazione è vietato o precluso. La ‘società performante’ non tollera il deviante, l’imperfetto, non tiene conto che se da un lato la medicina cura l’uomo perché beve troppo, mangia e fuma troppo, la psicoanalisi tocca con mano che l’uomo è tale proprio perché eccede nei suoi eccessi, ben consapevole di darsi la morte a piccole dosi. La ‘società performante’ non ha spazio per gli ultimi, ai quali spesso non resta che chiedere aiuto con le modalità che il corpo e l’inconscio forniscono, cioè ammalandosi.

La società priva di ‘imperfezioni e di pericolose emozioni ‘preconizzata ad esempio nel distopico film Equilibrium è da sempre un miraggio del capitalismo avanzato, che ha compreso come il controllo sulla popolazione si eserciti proprio sedando le emozioni, inventandosi nuove etichette di patologia mentale tramite le quali poter all’infinito medicalizzare ogni aspetto dell’animo umano, tendendo allo zero emotivo e pulsionale. Nell’ultima versione del Dsm sono assurte a patologie comuni espressioni normali dell’animo umano: il lutto prolungato, la normale riottosità dell’adolescente si è tramutata in ‘disturbo oppositivo provocatorio’. L’essenza vitale del bambino è stata incasellata nella diagnosi di disturbo da iperattività. Ethan Watters nel libro Pazzi come noi (Bruno Mondadori, 2010) sostiene che la iper-proliferazione diagnostica null’altro sia che un tentativo di incasellare e normalizzare modalità di espressione che non sono assimilabili con il pensiero dominante. E che quindi passano dalla porta della ‘malattia’ incontrando, loro malgrado, la “cura”. Devianza, appunto.

È questa la battaglia culturale che dobbiamo combattere, sulla quale la politica dovrebbe interrogarsi. Altro che hashtag.

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